Il mercato nero delle emozioni
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Il mercato nero delle emozioni

Usi e costumi del marketing contemporaneo

Il marketing - disciplina per anni dominata dalla visione occidentale moderna dell’homo oecomomicus - sembra infine aver scoperto che gli esseri umani (vale a dire, per i marketers, i “consumatori”) agiscono anche sotto l’influsso delle emozioni e che quindi realizzano decisioni (d’acquisto) non solo per effetto di scelte razionali ma anche subendo l’influsso di fattori emotivi o situazionali. Sembra ci si sia persino resi conto che le esperienze siano fonte primaria sia di sensazioni che influenzano il contesto di acquisto, sia di testimonianze considerate dai “simili” molto affidabili e influenti, talora persino più delle tradizionali forme pubblicitarie.

Ed ecco sorgere alcune sub specie di tecniche innovative con specializzazioni di volta in volta denominate in modo altisonante a seconda della tendenza di turno. Appaiono spesso a caccia di qualche scoperta neuro-scientifica, privata di ogni complessità affinché diventi traducibile in chiave operativa e in forma immediata, aiutando a fissare in una qualche classificazione semplice cosa siano emozione o esperienza. Con una certa ignoranza del contesto, essendo difficile per me capire appieno cosa s'intenda con tali "nuovi" termini, ne evoco qualcuna: “marketing esperienziale”, “marketing 4.0”, “marketing virale”, “funnel marketing”, “influencer marketing”, e così via… Con offerta relativa di corsi e servizi specializzati. In nome di cambiamenti imputati a consumatori immersi in oceani d’informazione grazie ad internet o a Facebook o ad Instagram o a Snapchat.

Prosumer è uno dei termini più intriganti: lo diventerebbe ad esempio colui (o colei) che si trova ad essere ingaggiato in percorsi “autonomi” (“dis-intermediati”!?) di produzione di informazione ad uso e consumo del marketer di turno. D’improvviso, infatti, il consumatore sarebbe diventato più autonomo e attivo rispetto ai suoi nonni o bisnonni, perché ora ha a disposizione uno smartphone pieno di app che si contendono la sua attenzione affinché vi lasci gratuitamente traccia o vi esprima il suo parere producendo gratis dati e contenuti. In cambio, gli mostrerebbero quanto sia facile confrontare prezzi e qualità, di solito predefinite grazie alle classifiche stilate da consumatori come lui che già hanno provato l’esperienza e gli raccontano se e come siano rimasti soddisfatti su questo o quell’aspetto.

Così, di fronte a questa nuova improvvisa autonomia - affinché essa diventi sempre più prevedibile e orientabile per catturarne attenzione, fiducia e impegno a far propria l’istanza di pubblicità - ecco nascere la centralità del consumatore e non più della merce, il valore simbolico della marca e non più solo della materialità dell’oggetto da consumare, la rilevanza dell’appartenenza e dell’advocacy e non più solo della fase cognitiva dell’informazione, la dimensione interattiva dell’esperienza fatta di cortesia, dialogo, reintroduzione di caratteri che ostentino (e costruiscano) autenticità, originalità, recupero di tradizioni rinnovate da tecnologie, fragranze e colori evocativi, et similia

Nonché – beninteso – la consueta partita a scacchi delle previsioni reciproche, che - nella pretesa dis-intermediazione - fanno pendere oggi il piatto della bilancia verso i big data prodotti dalle piattaforme che hanno colonizzato (e monopolizzato) l’altrimenti troppo selvaggio e imprevedibile web. Dati che promettono il tailoring su misura: l’individuazione dei bisogni se non dei desideri del singolo, per proporgli la bussola giusta al momento giusto. Dati costruiti dalle pratiche che i singoli navigatori realizzano quotidianamente e di cui si appropriano le piattaforme per produrre nuovi indicatori di direzione verso la "realtà" del consumatore. Analytics sempre più sofisticati, che spesso solo intelligenze artificiali sono in grado di decodificare per fornire modelli di comportamento, basandosi su algoritmi in cerca di correlazioni fra cause ed effetti.

Nuove forme di oggettività costruita per far dimenticare l’artificio della costruzione a favore della promessa di previsione.

Così, se hai prenotato un albergo a Venezia usando la tal piattaforma, avendo dovuto fornire un indirizzo email per ricevere comodamente la prenotazione a casa, la casella di posta si riempirà di proposte di nuovi viaggi con offerte vantaggiose sia per il costo sia per la narrazione appassionata di esperienze fantastiche: un qualche algoritmo presume che se hai viaggiato una volta viaggerai ancora e che mostrarti quanto vantaggiosa sia la proposta è probabile ti spinga a farlo davvero. E poiché quell’indirizzo potenzialmente è venduto anche ad altri, le proposte ti arriveranno da soggetti diversi, che sebbene non ti appaiano impersonali sono per lo più incarnati da dispositivi software che facilitano l’invio automatico ad personam pescando da immense banche dati organizzate e ben classificate dal programma o dall’algoritmo che lo ispira. 

In tutto questo, costante è l’imperativo a lasciarsi emozionare e ad interagire con la miriade di esperienze “dis-intermediate” (!) che i nuovi info-mediatori online propongono anche per le situazioni offline.

Del resto, la rete sempre più ampia di relazioni può esistere solo se la si alimenta.

Salvo poi favorire la lamentatio contemporanea circa il carattere effimero o “liquido” delle relazioni in cui ci si ingabbia, che farebbe perdere l’autenticità “vera” di una identità propria, sempre più interiore e nascosta rispetto alla ostentazione che i social network sottopongono alle regole di reputazione sociale.

La spirale, infatti, prosegue vertiginosa, per aprire il varco alla concorrenza delle tante proposte di “emozioni sempre più vere”, consumate sul banco del supermercato come nell’emporio di lusso. Spesso, è solo una questione di “classe” a distinguerle. Basta accontentarsi se si è alla base della piramide; cercare di scalare quelle più elevate se si è nel mezzo; puntare alla distinzione sempre differente perché davvero unica, se si è al vertice.

Ora, a parte l’espansione amplissima permessa dalle nuove tecnologie digitali - e quindi l’interesse indubbio a produrre ricerche empiriche che ne comprendano i dispositivi nonché le pratiche d’uso dei membri di gruppi sociali differenti e diversamente organizzati - talvolta faccio fatica a comprendere quali siano davvero le “novità” teoriche celebrate da questa o quella “nuova” corrente del marketing contemporaneo.

Sin dall’alba degli studi sociologici, la razionalità dell’agire sociale è stata considerata solo una parte dell’agire umano: “animale imperfetto” – come lo definiva il socio-antropologo Clifford Geertz - l’essere umano in società cerca perfezionamento nell’attribuire significato comprensibile e condivisibile (“comunicabile”) alle sue azioni; e persino quando gliene attribuisce uno razionale il percorso che compie è complicato dalle variabili e posizioni di reciprocità in cui si trova nel momento in cui interagisce con altri.

Un libro utile per comprendere il ruolo delle passioni prefigurato da tre grandi padri della sociologia per studiare l’azione sociale (inclusa, direi, l’azione di acquisto) - ma che forse gli studenti di marketing considererebbero “astratto” perché non insegna le ricette tecniche di tendenza - è un testo di Serge Moscovici tradotto in italiano con il titolo significativo La fabbrica degli dei. Il legame sociale - ci illustra l’autore ripercorrendo alcuni passaggi significativi di Durkheim, Weber e Simmel - si intreccia con riti ed effervescenze sociali in cui si celebrano valori simbolici che contribuiscono a costruire o rinsaldare le comunità identitarie degli abitanti dei vari contesti di vita e di esperienza.

Gli individui nel momento in cui interagiscono si rap-presentano gli uni agli altri e realizzano modalità di riconoscimento più o meno appropriate o riuscite a seconda delle possibilità di condividere la definizione delle varie situazioni in cui si trovano: così ci insegnava un altro sociologo, Goffman. Uno spunto interessante tratto dalla sua analisi dell’interazione per applicarla alle pratiche digitali invita, ad esempio, a considerare come nella presentazione di sé sui social media si rinunci in qualche modo alla gestione del retroscena (ormai riservato a poche élites tecnologiche o finanziarie che contano) per muoversi su una costante ribalta in cui mettere in scena maschere che raffigurano cornici d’azione diverse; i più bravi sarebbero quelli che rapidamente sanno capire come spostarsi dall’una all’altra e soprattutto quali regole reputazionali siano in vigore nell’una e nell’altra per influenzare prestigio, credibilità e onore (del marchio, dell’influencer, del recruiter, del consumatore, e così via).

Le differenze alle quali spesso oggi si fa riferimento quando si fantastica di intimità interiori in cerca di autenticità rinnovate - di cui sfuggono, però, i modi di comunicazione o di rilevazione empirica che necessitano di una qualche manifestazione “esteriore” - potrebbero, invece, essere interrogate per comprendere quali siano le variabili che ampliano, o viceversa restringono, le opportunità di posizione degli interlocutori in quanto collocati in cerchie relazionali diversamente organizzate.

In altre parole, se per la mia bisnonna o per mia nonna - supponiamo vissuta in un paesino rurale fino agli anni 1950 - i gruppi sociali di riferimento erano quelli della sua famiglia allargata e della comunità del villaggio, da cui si allontanavano alcuni familiari migranti all’estero con i quali di rado forse lei poteva comunicare per lettera (ammesso le avessero insegnato a leggere), i suoi beni di consumo erano limitati alle ritualità prevalenti in tali cerchie. Un anello d’oro poteva segnare ad esempio il fidanzamento o il matrimonio, l’esposizione della dote e la ricchezza dei ricami artigianali segnalavano le capacità trasmesse alla fanciulla in procinto di sposarsi e al tempo stesso la posizione sociale della famiglia d’origine. Le emozioni e i sentimenti s’intrecciavano con i valori d’uso, regolamentati da tradizioni che tracciavano in modo alquanto rigido (o, per meglio dire, consueto) le valenze simboliche e relazionali di quanto si comunicava indossando un monile o abbigliandosi in un modo piuttosto che in un altro. A ciò corrispondevano una produzione e una distribuzione di beni abbastanza limitata agli artigiani del villaggio salvo, in via eccezionale per cerimonie speciali o per famiglie di prestigio, eventi occasionali a loro volta ritualmente scanditi come le fiere o i viaggi – lunghi e costosi - verso città più grandi, ove trovare prodotti di fattura industriale con valenza simbolica allora distintiva. La concorrenza fra i vari beni e valori era dunque a sua volta limitata a tali contesti e alla loro stratificazione sociale e culturale.

Una ragazza di oggi si trova invece in ben altro scenario competitivo. Può avere opportunità più diversificate e appare in grado di abitare situazioni sociali svariate che richiedono regole rituali di appropriatezza differenti. Viaggiare è più semplice e talora meno costoso anche grazie ai voli low cost; conoscere oggetti e stili di consumo vari è reso agevole sia dai mezzi di comunicazione di massa sia da Internet; il web può offrire filter-bubbles o echo-chambers o communities differenti (a seconda anche delle competenze fornitele dalla sua posizione e dal capitale sociale di relazioni), in cui cercare ispirazione per individuare modelli di riferimento. Le relazioni sociali possono variare dai compagni di scuola del luogo d’origine a quelli di università (se appartiene ad un contesto che le agevoli questa scelta), a quelli del basket, a quelli incontrati in Erasmus o mentre viaggia in altre città, ai colleghi di lavoro nel bar dove svolge qualche mansione serale per arrotondare il bilancio, e così via… 

Sembrerebbe però avere, a fronte dei vantaggi offerti dalla moltiplicazione delle opportunità - da cui discende una più ampia libertà di scelta - un nuovo problema che si tende a riassumere con la domanda: come capire quali sono i suoi "veri" valori-desideri, o qual è la sua “vera” o “autentica” identità? Beh, qualche strategia di marketing può riuscire a farle credere per un po’ che per assicurarsi buona reputazione ed essere all’altezza di queste più o meno labili relazioni deve trovare una sua posizione chiara e distintiva: solo indossando un capo che rende così attraente e approvata l’influencer di turno nel suo cruscotto web 2.0 potrà apparire “se stessa” agli occhi di una specifica situazione d’interazione in cui in quel momento stia ritualmente riferendosi. In tal modo può sperare di essere a sua volta socialmente approvata hic et nunc: l’identità che conta in quel momento. Alla “conquista del presente”, per parafrasare il titolo di un libro di Michel Maffesoli.  Rituali sociali differenti e più complessi per la quantità di competenze che richiedono in situazioni sociali più varie.

Basta questo per ipotizzare consumatori postmoderni che sarebbero autonomi e attivi, autentici e consapevoli? Come se, prima, le nostre povere nonne o bisnonne fossero state dipendenti e passive, prive di emozioni e sentimenti nel consumare o nel vestirsi? Non è che dimentichiamo che a variare è stato anche il contesto produttivo, portando con sé nuove forme di concorrenza spinte dall’imperativo della crescita ad ogni costo? Una concorrenza che riguarda anche la dimensione simbolica e la conquista della fiducia: il proliferare delle tecnologie di comunicazione che permettono di superare sempre più velocemente le distanze introduce opportunità accompagnate dall'esigenza di capire (o influenzare per far credere) quali siano gli interlocutori e le fonti affidabili, o quali i significati rilevanti, al tempo stesso forti e capaci di variare a seconda dell’appropriatezza situazionale. E tanto più sono distanti le fonti tanto più, insegnava Schütz, risulta complesso riconoscerne i tratti.

Nuove opportunità, nuove competenze, dunque – non sempre favorite dal marketing (o dalla propaganda), che deve cercare di fornire risposte semplici specie per ostacolare eccessi di riflessività nel consumatore e agevolare l’identificazione col prodotto-marchio. Ma la stessa esigenza di sempre: sapersi mettere nei panni dell'interlocutore, sapersi guardare dagli occhi dell’altro (la famosa empatia di cui già parlava Max Weber), consapevoli che reciprocamente anche l’altro farà la stessa cosa. Altrimenti, come tentare di costruire uno spazio simbolico fatto di significato condiviso e rilevante per quel che in quel momento siamo per noi e per gli altri, ponendoci in quanto soggetti che ambiscono ad intrecciare legami (a loro volta dotati di significati)?

E’ la gabbia aurea della reciprocità, il fascino - e il confine, spostato un po’ qui un po’ là - della ritualità sociale. 

Ci interroghiamo oggi sulle nuove significatività in cerca d’autore e di valore a cui varie forme di merci cercano di far corrispondere bisogni riducibili al consumo di un bene piuttosto che di un altro. Ad esempio, l’ambiente si è antropomorfizzato nell’evangelismo ecologico che può oscillare fra il riformismo della sostenibilità - con i vari prodotti biologici o vegetariani nei banchi del supermercato - o le eliche immense sulle vette di montagne riempite di cemento “buono” se finalizzato a sostenere l’alternativa energetica; e le sue forme più estreme di animalismo anti-umano dove si esplicita il paradosso della scomparsa dell’impronta antropica. Passando per le varie contrattazioni mercantili di beni e servizi con cui si alimenta il rispettoso amore degli animali domestici e non, fino a cambiare grazie a nuovi stigma stili di alimentazione e di abbigliamento; o per le innumerevoli forme di valorizzazione mercantile del passato, con cui secondo l'originale libro Enrichessement di Boltanski e Esquerre il capitalismo occidentale sfrutta il passato attribuendo valore monetario a oggetti e patrimoni già esistenti ammantati di un’aura di significati che assegnano nuove forme di emozione-distinzione.

Per una critica dell’economia politica del segno, scriveva con felice intuizione Jean Baudrillard negli anni 1970: possiamo lasciarla in balia dell’hic et nunc della vendita ad ogni costo – incluse le varie etichette di marketing che vanno di moda ad ogni piè sospinto - oppure possiamo esercitare forme consapevoli di comunicazione socialmente responsabile? Ad esempio aiutandoci con analisi empiriche attente ad esplorare il nesso tra nuovi dispositivi e forme di disuguaglianza, animate da interrogativi teorici ben situati, che meglio ci aiutino a comprendere le dinamiche e le pratiche dei diversi attori sociali, tenendo in debito conto i rispettivi rapporti di forza e di potere?

illuminante una bombola di ossigeno per andare nelle profondità dei nostri comportamenti. moltissimi invece restano in superficie, poi c'è chi si spaccia per campione di apnea e ...non sa neppure nuotare

Si evolvono gli strumenti e le tecnologie per catturare, misurare e pesare ogni micro-movimento online e anche io fatico a trovare scintillanti novità teorico-metodologiche. Mi pare di vedere che l'oggetto della transazione sia sempre più di natura relazionale/empatica e che le poste in gioco siano tutte orientate all'accesso ai dati del cd. prosumer. Nel "mercato nero delle emozioni" è caccia aperta alla antica merce chiamata "fiducia", da conquistare o barattare in contesti sempre più liquidi e artificiali.  Grazie per aver condiviso le sue riflessioni. 

La sociologia delle Emozioni, il mio Norbert aveva ragione 🤗un saluto prof

Paola Sonia Aresu

Customer Care Specialist

5y

Attuali e ancor più brillanti considerazioni. Grazie! :)

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