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Non di solo Pil è fatto il benessere. La nuova via è equa e sostenibile

In Italia come in Ue, l’ossessione per la pura crescita economica domina ancora il dibattito e il disegno delle politiche. Ma la qualità della vita delle persone dipende sempre più anche da altri fattori

di Enrico Giovannini *

4' di lettura

Quando, nel 2007, alla fine del secondo Forum mondiale su «Statistica, conoscenza e politica» che organizzammo come Ocse, fu firmata da tante organizzazioni internazionali (Onu, Banca Mondiale, Commissione europea) la «Dichiarazione di Istanbul» sulla necessità di misurare il progresso delle società andando «oltre il Pil» sapevamo già che, in tutto il mondo, c'erano tante iniziative volte a misurare con indicatori statistici il benessere delle persone, tenendo conto di diversi fenomeni economici, sociali e ambientali.

E avevamo la consapevolezza (già nata con il primo Forum mondiale organizzato a Palermo nel 2004) che il progetto globale sulla misura del benessere delle società, che avevamo lanciato nel 2005, avrebbe generato un movimento mondiale su questo tema, il quale un giorno sarebbe stato riconosciuto come centrale per il disegno delle politiche, nonché per il funzionamento della democrazia.

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Nel settembre del 2015, con l'approvazione da parte dell'Assemblea Generale dell'Onu dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e dei 17 Obiettivi e dei 169 target per orientare in questa direzione tutte le politiche, e anche le scelte delle imprese e dei consumatori, quel giorno è arrivato. Non a caso, il target 17.18 fa riferimento alla necessità di misurare lo sviluppo usando indicatori complementari al Pil. Nel frattempo, nel 2010 all'Istat avevamo lanciato, in collaborazione con il Cnel, il progetto sugli indicatori di Benessere equo e sostenibile (Bes), il quale dal 2013 produce misure dettagliate sulle diverse dimensioni del benessere e della sostenibilità non solo a livello nazionale, ma anche a livello locale.

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Perché la crescita non basta
Se, dunque, l'Italia non solo dispone di tali indicatori, ma è stata addirittura all'avanguardia di questa rivoluzione, alla quale hanno contribuito anche iniziative importanti come quella del Sole 24 Ore, possiamo dire che la battaglia è vinta e che oggi le politiche sono «tutta un'altra cosa»?
Purtroppo, no. Anzi. In Italia, ma anche a livello europeo, l'ossessione per la pura crescita economica ha dominato e domina tuttora il dibattito pubblico e il disegno delle politiche.
Intendiamoci: con l'attuale sistema economico, senza crescita non c'è aumento di occupazione, soprattutto di buona qualità. Senza crescita non ci sono risorse aggiuntive per l'educazione, la cura della salute, il sistema di welfare in presenza di un invecchiamento della popolazione e così via. Soprattutto, per un paese fortemente indebitato come l'Italia, la crescita economica è condizione necessaria per onorare l'enorme massa di debito pubblico.
Ma i dati disponibili ci dicono che la qualità della vita delle persone dipende sempre più anche da altri fattori. A partire da un ambiente salutare (ce lo ricordano i 70mila morti all’anno per malattie legate all'inquinamento). Per non parlare di più eque distribuzioni del reddito, della ricchezza e delle opportunità, e della coesione sociale, il cui deterioramento rende sole le persone di fronte alle difficoltà.
Questo non vuol dire che questi fattori non abbiano guidato specifiche decisioni politiche, a livello nazionale o locale, o comportamenti di singole imprese o di singoli cittadini, ma il paradigma collettivo con cui leggiamo e interpretiamo la realtà, con cui valutiamo una Legge di bilancio, o le ricette politiche di questo o quel partito, resta ancorato ad una visione novecentesca, totalmente inadeguata rispetto alle sfide del XXI secolo. I media e gli opinion leader hanno una chiara e forte responsabilità per questo ritardo. Non solo in Italia, ma anche e soprattutto in Italia.

Dalla Nuova Zelanda alla Ue
Eppure, ci sono paesi del mondo in cui la politica guarda ad altri parametri e disegna politiche in modo radicalmente diverso. Si pensi alla Nuova Zelanda, tanto per non citare i soliti paesi scandinavi, dove la prima ministra Jacinda Ardern ha presentato alcuni mesi fa le priorità dell'azione di governo intorno al «benessere» come asse portante di tutte le politiche, al punto tale che anche la struttura del bilancio pubblico è stata ridisegnata usando le sue diverse categorie. Ecco allora la lotta al disagio mentale e alle disuguaglianze, la transizione ecologica del sistema economico, l'eliminazione della povertà minorile, la transizione alla società e all'economia digitale, la costruzione di infrastrutture per lo sviluppo sostenibile.

Certo, qualcuno dirà che l'Italia non è la Nuova Zelanda. Ma allora che dire del programma della nuova Commissione europea , tutta orientata allo sviluppo sostenibile, cioè allo sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità che le generazioni successiva facciano altrettanto.
Qualcuno ha detto che la nuova Commissione ha scelto l'ambiente come priorità: nulla di più sbagliato, perché la transizione energetica “giusta” e la scelta per l'economia circolare sono scelte che impattano simultaneamente sull'economia, la società e l'ambiente, e richiedono cambiamenti significativi del modo funzionare delle istituzioni, a partire dalla Banca Europea degli Investimenti e della Bce.

Cosa c'è di più “economico” di questo? Semplicemente, tanti “esperti” non riescono proprio ad uscire dagli schemi che hanno usato finora, magari per raggiungere posizioni importanti. E questo è un altro dei motivi del ritardo culturale del nostro Paese di fronte a un mondo che cambia.

*Docente di Statistica economica a Roma Tor Vergata, 62 anni, Enrico Giovannini è stato Chief Statistician all'Ocse (2001-2009), presidente Istat (2009-2013) e ministro del Lavoro (2013-2014). E' cofondatore e attuale portavoce dell'Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).
All'Istat ha avviato il progetto per la misura del «Benessere equo e sostenibile», un indice per valutare il progresso di una società non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale e corredato da misure di disuguaglianza e sostenibilità. Alcuni indicatori collegati al Bes dal 2016 vengono inseriti nel Def (Documento di programmazione economica e finanziaria) per misurare l'impatto delle norme allo studio per la Legge di bilancio

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