Fast fashion & Low cost

Moda sostenibile e analisi di un                            brand green

Fast fashion & Low cost Moda sostenibile e analisi di un brand green

Tesina – Corso di Moda e Media digitali – a.s. 2020-2021

Lucia Valentini

INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1 – INDUSTRIA DELLA MODA

  • Globalizzazione e fast fashion
  • Effetto Walmart ed Effetto Primark (low cost)
  • Qualità, mutamento e consumismo: “disposable” come filosofia di approccio alla moda

CAPITOLO 2 – MODA LENTA E GREEN

  • Moda slow e sostenibile
  • Consigli pratici 

CAPITOLO 3 – CASO DI STUDIO

  • Pelechecoco   

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA


INTRODUZIONE

Il tema centrale della tesina riguarda l’analisi dei cambiamenti odierni in riferimento all’approccio alla produzione, all’acquisto e al consumo della moda, in seguito all’affermazione e al successo del fast fashion nel mercato mondiale. 

Saranno poi esposti dei consigli verso un comportamento più salutare e razionale e verrà analizzato un marchio green ed ecosostenibile. 

In particolare, la struttura del lavoro è suddivisa in tre capitoli:

Il primo capitolo si focalizzerà sull’analisi della moda veloce – di breve durata – ed economica – di bassa qualità – e di come questa sia diventata un’ossessione perché incita al rinnovo continuo, dal momento che è alla portata di tutte le tasche. 

Vengono analizzate le strategie che le catene aderenti adottano per invogliare i consumatori e per stare al passo con le novità e si osserva anche come esse riescano a permettersi costi così convenienti e competitivi. 

In particolar modo, sono approfondite le criticità collegate allo sviluppo del fast fashion.

Un focus verte sul consumismo eccessivo del cliente che, confuso e ammaliato – dalle copertine, dalle pubblicità, dai vip, dagli influencers, ecc.  – molto spesso basa la sua scelta d’acquisto solamente e tristemente sul fatto che quel capo “va di moda”, è trendy e fashionable.  

Nel secondo capitolo si propone un antitetico approccio alla moda, più lento, più pensato e più benefico. Adottare uno stile di vita e di consumo più green e slow è sicuramente una delle soluzioni sensate per ridurre i cambiamenti globali negativi in atto. 

Inoltre, vengono indicati alcuni consigli pratici utili che il consumatore può seguire per uno stile di vita più green e attento al pianeta, quest’ultimo inteso sia come ecosistema naturale che come contenitore di individui. 

Infine, nel terzo capitolo viene analizzato un brand danese ecosostenibile che, sebbene poco conosciuto in Italia, ha catturato il mio interesse tale da approfondirlo. 

Nello specifico, si analizza la struttura e la composizione del suo sito web.


CAPITOLO 1 – INDUSTRIA DELLA MODA

Ciò che più ha rivoluzionato il mondo della moda negli ultimi tempi è stato l’avvento della globalizzazione, con la quale la moda si è internazionalizzata e orientalizzata. 

La moda è diventata una vera e propria industria, tanto da acquisire sempre maggiore importanza. Ruota attorno ad un enorme business, soprattutto a seguito dell’intensificazione dei canali comunicativi, quali il mezzo pubblicitario e i social networks. 

Le persone sono diventate sempre più connesse e interdipendenti e il settore dell’abbigliamento ha ottenuto maggiore rilevanza. Il consumo, di conseguenza, è aumentato, intensificando il tipico consumismo occidentale, e si è globalizzato ed uniformato, appiattendo le diversità.

Quante volte abbiamo detto “Non ho niente da mettermi”

Negli ultimi anni si è assistito al fenomeno della moda low cost, scaturito dall’affermarsi del fast fashion, una “moda veloce” con la quale vengono fabbricati e venduti capi in volumi ridotti, a prezzi bassi e convenienti, ad una velocità vertiginosa, utilizzati per un breve periodo per poi essere sostituiti da altri capi cheap ma sempre di tendenza. 

Nel settore del fast fashion le organizzazioni di vendita al dettaglio non riforniscono, ma piuttosto passano a qualcosa di nuovo, generando così una nuova moda. 2 

Questo inevitabilmente scatena un meccanismo di voler scoprire la novità e quindi i consumatori sono tentati a far visite più frequenti nei punti vendita e nei siti online per acchiapparsi l’ultima tendenza prima che finisca. 

Tutto ciò è quello che viene definito “effetto Walmart”, cioè vendere la moda a prezzi bassissimi: l’omonima multinazionale americana fa un vanto della sua strategia "Every Day Low Price” (EDLP). 

Uno dei tanti problemi però che affliggono le piccole imprese è il fatto che si trovano costrette a chiudere quando i grandi rivenditori nazionali entrano in un mercato, poiché i negozi piccoli non acquistano tanto dai loro fornitori e quindi fanno pagare di più ai clienti.

Un’altra catena emblema del fast fashion e della moda low cost è sicuramente Primark, azienda irlandese nei cui punti vendita è possibile comprare capi d’abbigliamento in continuo rinnovo e a prezzi stracciati, tanto che anche per essa gli studiosi hanno coniato l’espressione “effetto Primark”. 

Una delle tante strategie che queste catene hanno adottato è distribuire grandi punti vendita all’interno di centri commerciali ed outlet, così da abbattere i costi di locazione che invece nei centri città sono molto alti. Inoltre, i servizi rivolti al pubblico sono minimi, i livelli di assistenza personale sono inferiori alla norma ma comunque accettati dai consumatori che la rimpiazzano con la soddisfazione di pagare davvero poco i capi che comprano.

Come evidenziato da Bill Webb in “Fashion Marketing. Contemporary issues”, le persone sono diventate molto individuali, indipendenti, non hanno più bisogno e non richiedono più di tanto di essere informate sui prodotti e spigarne le caratteristiche, perché sono più che disposte a scambiare il loro servizio personale per prodotti economici. 3

Ma come è possibile mantenere prezzi così convenienti? 

A partire soprattutto dagli anni 80 e 90 alcune aziende occidentali si aprirono a nuovi mercati ed iniziarono la pratica dell’offshoring, delocalizzando geograficamente la produzione verso paesi asiatici, come la Cina e la Turchia, e quelli meno sviluppati o in via di sviluppo, come India, Bangladesh e paesi dell’Europa dell’Est, dove i costi di manodopera sono nettamente inferiori.

C’è però da sottolineare che oggi questi paesi di grande tradizione tessile, ma anche quelli in cui lo sviluppo è più recente, come Australia e Brasile, sono pronti non solo a ricevere prodotti, ma anche a spiccare il grande balzo verso la global fashion, ognuno identificato da una propria particolare caratteristica.

Secondo la multinazionale McKinsey, la Cina è diventata il più grande mercato mondiale della moda nel 2019, tanto da emergere come il più grande esportatore di fast fashion. 4

Basti pensare che il 70% della produzione mondiale di calzature è Made in Cina, ma non si riflette sul fatto che questa moda viene prodotta in modo celato, perché il sistema della moda tende a nascondere l’approvvigionamento e le condizioni di lavoro della manodopera che non rispettano i diritti dei lavoratori e sono ai limiti dello sfruttamento. 

L’industria della moda è il secondo maggior contributore al mondo alla schiavitù moderna. Non è trasparente, è oscura, usa metodi razzisti e sessisti ed abusa del lavoro minorile. È quanto denunciato anche dall’UNICEF, che da sempre combatte contro il lavoro minorile, sebbene ancora oggi nel mondo ci sono più di 150 milioni di children labour.

Perciò, costi così competitivi accessibili a tutti sono possibili da sostenere perché sono bassi i costi operativi. 

Come evidenziato precedentemente, questi grandi negozi vengono situati in punti strategici, in più non ricorrono alla pubblicità e ruotano molto rapidamente le collezioni. Con qualità abbastanza scadente, producono quantità limitate di capi di abbigliamento, così da non avere merci invendute e poter offrire una grande varietà di modelli molto più di frequente.

“La moda veloce descrive la strategia di vendita al dettaglio di adattare gli assortimenti di merce alle tendenze attuali ed emergenti nel modo più rapido ed efficace possibile. (…)

I rivenditori di fast fashion hanno sostituito il tradizionale modello push designer - in cui è il designer a dettare cosa è "in" - con un approccio di opportunità, in cui i rivenditori rispondono ai cambiamenti nel mercato entro poche settimane, contro una media del settore di sei mesi. (…)

Il messaggio per i commercianti di massa tradizionali e per i rivenditori di abbigliamento speciale è chiaro: devono aggiornare il loro inventario più frequentemente se sperano di catturare la folla del fast fashion”. 5

Per arrivare prima degli altri competitors e soddisfare le domande dei clienti, i rivenditori di fast fashion devono tener conto delle tendenze emergenti e devono rispondere ai cambiamenti nel mercato entro poche settimane, così da riuscire a vendere le merci al momento giusto e poi rimpiazzarle in breve termine con altre nuove collezioni, sempre di tendenza e sempre acchiappabili.  

L’azienda pioniera del fast fashion è Zara, seguita da H&M e da altre grandi catene di distribuzione, come Primark, Pull&Bear, Stradivarius, Bershka, Oysho, Benetton, Topshop, Mango, Miss Selfridge, Peacocks, Esprit e tante altre. 

Secondo la classifica 2020 dei Best Global Brands di Interbrand 6 [1], Zara si colloca al trentacinquesimo posto, mentre H&M al trentasettesimo ed entrambe perdurano nel mantenere il ruolo di aziende leader nel settore della moda veloce. 

Secondo uno studio del 2016 di McKinsey & Company, il brand spagnolo (Zara) offre 24 nuove collezioni di abbigliamento ogni anno, mentre il marchio svedese (H&M) ne propone da 12 a 16 e li aggiorna settimanalmente. 7

Ad oggi il numero di collezioni sono aumentate, tanto da arrivare fino a 55 micro-collezioni in un anno. Zara rifornisce i suoi punti vendita anche due volte alla settimana con le novità.

Le aziende monitorano costantemente i gusti e le opinioni dei consumatori e i cambiamenti psicologici, temporali e geografici, così da azzeccare con la nuova collezione che entro breve uscirà. 

Sono state in grado di rendere gli abiti di tendenza veloci ed economici. Hanno democratizzato l’alta moda - la moda non è più un lusso per pochi - portando quindi sulla pelle dei clienti la sensazione del lusso ed eleganza senza pagare il prezzo intero. Tutta questa disponibilità incoraggia consumi impulsivi e compulsivi, è (quasi) una dipendenza e un’ossessione per sentirsi appagati. 

Oggi le persone non acquistano più i capi d’abbigliamento per soddisfare un bisogno primario, di necessità, ma per comunicare la propria personalità e sentirsi parte di un gruppo, cercando di rimanere sempre al passo con i tempi. 

Nella maggior parte dei casi, la nostra spinta all’acquisto è data semplicemente e tristemente dal fatto che vogliamo possedere un certo bene solo perché ce l’hanno tutti, perché “va di moda”. 

Quanti beni sono insignificanti e persino brutti ma comunque li compriamo perché influenzati dal trend del momento? Ecco che tutto ciò, così facendo, sfocia in eccesso e sovrabbondanza. 

Purtroppo è il modo di pensare moderno: è meglio avere tanto pagando poco. In termini dialettali, “Poca spesa, tanta resa”. 

Di conseguenza, il ciclo di vita del prodotto diminuisce: è la filosofia dell’usa e getta (disposable), per la quale si compra, si indossa, si butta “il vecchio” e si compra il nuovo e così via. 

Un bel video con il comico statunitense Hasan Minhaj, intitolato “The ugly truth of fast fashion” 8, disponibile su Youtube ed andato in onda su NETFLIX, spiega che negli anni 80, gli Americani compravano in media 12 nuovi capi d’abbigliamento ogni anno. Ora il consumatore americano medio acquista un capo ogni 5 giorni e mezzo, per un totale di 68 capi all’anno circa, la metà dei quali sono indossati tre volte o meno. Ma nessuno, in realtà, ha bisogno di tutta quella roba ogni settimana. 

È incredibile lo sperperio giornaliero di risorse e di denaro. E non solo, perché, se è vero che l’industria della moda è tra le più importanti (a livello di business), è anche vero che è la seconda più inquinante al mondo (dopo quella petrolifera).

Nonostante la moda a basso costo e ad alto volume sia profittevole per le aziende che l’hanno adottata, è stata criticata perché rivela diverse problematiche, sia etiche che ambientali: overconsumption (eccessivo consumismo), sweatshops (luoghi lavorativi con condizioni pessime ed inaccettabili), sfruttamento di manodopera, salari bassi, violazione dei diritti dei lavoratori, lavoro minorile, orari di lavoro allucinanti, degrado ed inquinamento ambientale, sotto forma di rilascio di sostanze chimiche pericolose.

Vi siete mai chiesti come fa ad essere un capo così economico?

Credo che molto spesso paghiamo troppo poco i vestiti che compriamo.

Non dovremmo preoccuparci solo della quantità di capi prodotta, bensì molto più spesso dovremmo domandarci da chi e come vengono fabbricati. Se stai spendendo cinque euro per una t-shirt, vale la pena che tu ti domandi se la persona che l’ha realizzata ha ricevuto un salario onesto. 

Scriveva il noto sociologo Zygmunt Bauman in “L’etica in un mondo di consumatori”: «I clienti, confusi dal turbinio di prodotti, dalla sconcertante gamma di offerte e dal ritmo vertiginoso del cambiamento, non possono più far conto sulla propria capacità di apprendere e memorizzare, e dunque devono accettare le rassicurazioni del mercato sul fatto che il prodotto attualmente in offerta è l’oggetto perfetto, quello che devi avere a tutti i costi. [...] Tutto ha i suoi quindici minuti di bellezza, prima di finire nella discarica». 9

La moda è diventata un fenomeno globale; ha una vita breve, è temporalmente fragile; riesce ad invogliare e a manipolare le scelte dei consumatori. Viene consumata in modo rapido, passivo ed irrazionale. I consumatori sono dipendenti da questa moda veloce ed economica, ma allo stesso tempo chic. Non c’è quasi più il tempo che una moda si consolidi che già è vecchia, sorpassata e sostituita. È un ciclo continuo e incessante, vertiginoso. È la società “liquida” baumiana.

Quindi, sicuramente eleganza e convenienza sono il binomio vincente, ma è anche vero che le tendenze muoiono rapidamente. Perché perciò non cambiare la rotta e propendere verso un diverso approccio alla moda!


CAPITOLO 2 – MODA LENTA E GREEN

Alla luce dei cambiamenti globali, tra i quali quello climatico, risorse limitate e intensa crescita demografica, che causano enormi danni ambientali e significative disuguaglianze, è necessario procedere concretamente con azioni mirate per un futuro più armonico. 

Ci deve essere un cambiamento all’approccio alle cose, per il quale si deve prediligere la qualità piuttosto che la quantità, la quale non è progettata per durare.

Una soluzione potrebbe essere la moda slow e sostenibile.

La moda sostenibile può essere definita come “abbigliamento, calzature e accessori che sono fabbricati, commercializzati e utilizzati nel modo più sostenibile possibile, tenendo conto degli aspetti sia ambientali che socio-economici”. 10

Per una migliore vita del pianeta e sul pianeta, è necessario perciò investire di più sulla tutela dei diritti dei lavoratori, sul contenimento degli sprechi e sul riciclaggio dei prodotti, con particolare attenzione quindi all’utilizzo di materiali ecologici, alla produzione sostenibile e alla green distribution. 

Urgono importanti cambiamenti nel mondo della moda: in questo settore – e non solo in questo – bisogna rallentare nell’acquisto e di conseguenza nella produzione, rendendo la modalità di realizzazione di un capo più trasparente ed aumentando quindi la consapevolezza nel comportamento dei consumatori.

Non si sta dicendo che non devono comprare più, ma sicuramente dovrebbero essere più consapevoli, acquistando di meno e facendo durare più a lungo i capi che comprano. 

La moda lenta, perciò, è un concetto di moda che adotta una prospettiva consapevole e rispettosa delle condizioni di vita dei lavoratori e delle scarse risorse globali, riducendo al minimo il numero di indumenti e di rifiuti industriali e, di conseguenza, gli effetti sull’ambiente, cercando di creare prodotti unici, etici, di valore e soprattutto durevoli.

Il problema del riciclaggio è il mix di tessuti: molti indumenti sono creati con diversi materiali, i quali sono faticosi da separare e quindi difficilmente riciclabili. 

Attualmente c’è poco riciclaggio “da materiale a materiale”, cioè pochi capi sono riciclati e trasformati in nuovi vestiti, ma quelli vecchi solitamente vengono tramutati in qualcos’altro, come ad esempio in tappeti, coperte o imbottiture per i seggiolini delle auto. 

I vestiti dovrebbero essere progettati in modo da facilitarne il recupero. Molte aziende si stanno mettendo all’opera per mettere in pratica modelli più verdi: ad esempio, Adidas ha iniziato a produrre una gamma di scarpe da ginnastica in plastica oceanica e Zara ha annunciato che entro il 2025 utilizzerà solo materiali sostenibili.

Sicuramente diverse imprese si stanno orientando verso un’economia più circolare [2], cercando di adottare linee più green e nuove tecniche di riciclaggio.

Quindi quali azioni può intraprendere il consumatore?

Cerchiamo di non annegare nei vestiti ed adottiamo un ritmo più lento nei consumi e negli sprechi quotidiani. Prestiamo più attenzione ai materiali che sono stati usati e al modo in cui facciamo acquisti ed informiamoci sui modi in cui vengono prodotti i vestiti.

Si possono fare acquisti dell’usato (thrift shopping), del vintage, noleggiare vestiti, scambiarli o venderli a prezzi inferiori ai mercatini di seconda mano (jumble sales), donarli in beneficienza e comprare sui siti online destinati al commercio equo-solidale (ad esempio su Altromercato, Armadio verde, ceunmondo.it, peopletree.com e tanti altri). 

Tra l’altro vi è anche ThredUp, il più grande negozio online di abbigliamento di seconda mano che offre vestiti usati di alta qualità che si possono acquistare ma anche vendere. Chi ha detto che usato o riciclato è meno bello e ha meno valore? 

I capi possono essere anche aggiustati, dando loro una nuova vita ed addirittura confezionati con il fai da te. Privilegiamo la qualità, l’ecologia e l’etica nel lavoro, piuttosto che l’ammasso indistinto di quantità, quella comoda alle tasche ma un po’ meno all’ambiente e alla salute. 

Per fortuna, sempre più marchi seguono un percorso sostenibile: uno dei primi a prestare attenzione alla moda lenta è stato People Tree, fondato nel 1991 a Tokyo (Giappone) da Safia Minney. Vi sono anche Reformation, brand americano avviato nel 2009 da Yael Aflalo; MudJeans, istituito nel 2012 nei Paesi Bassi da Bert van Son ad Almere; Deadwood, nato a Stoccolma (Svezia) nel 2012 per opera di Carl Ollson e Felix von Bahder; due anni dopo, a Los Angeles, Sean Barron e Jamie Mazur fondarono Re/Done, marchio che utilizza i jeans Levi’s usati per creare nuovi design; e tanti altri.


CAPITOLO 3 – CASO DI STUDIO

Il caso di studio verte sull’analisi di un brand non tanto conosciuto, ma che fonda il suo stile e il suo approccio alla moda verso una produzione ecosostenibile. L’ho scoperto tramite una pubblicità su Instagram e ho deciso di analizzarne il sito web.

Pelechecoco è un marchio di moda 100% sostenibile fondato nel 2010 a Copenaghen (Danimarca) da Dan Vaarskov, pioniere del denim e direttore della società Diesel Denmark ApS. 

Da una breve intervista via email noto la sensibilità e il contatto che l’azienda mostra verso il cliente, dal momento che mi viene data una risposta immediata e precisa. Grazie alla responsabile del design Sophie Schandorff, vengo a conoscenza del fatto che il nome Pelechecoco deriva da tre personaggi: Pelé, il calciatore noto per le sue abilità, Che Guevara, conosciuto per essere un ribelle che vuole cambiare lo status quo, e Coco Chanel, per lo stile e l’innovazione. Queste figure, con le loro distinte e rinomate personalità, sono i punti di riferimento ai quali il brand si rifà. 

Spiega Sophie Schandorff: “Abbiamo creato un nuovo modo sostenibile per realizzare una giacca di pelle in un modo che non era mai stato fatto prima, come Pele fece quando giocava a calcio. Abbiamo sfidato l'industria del fast fashion creando un prodotto che non utilizzava sostanze chimiche, che non superava la produzione, uccideva animali – quindi come Che abbiamo sfidato il modo in cui le cose venivano fatte. Realizziamo bellissimi modelli slow fashion che non passano mai di moda come Coco Chanel”. 12

L’impegno attivo del brand verso la sostenibilità viene mostrato dal logo verde in contrasto con il colore nero predominante nella pagina d’apertura del sito web. 

Come metafora di un’economia circolare, rappresenta tre diverse maniche della giacca, di tre diversi tessuti, per sottolineare il riutilizzo delle risorse a disposizione per generare tessuti riciclati. Si nota anche che la metà superiore è mimetizzata e questo motivo camouflage viene indossato da militari e rivoluzionari in modo che possano fondersi con l'ambiente come sotto mentite spoglie. Con ciò il marchio vuole anche significare quanto sia importante fondersi e prendersi cura dell'ambiente e non sprecare risorse preziose nella produzione dei vestiti.

Pelechecoco si incentra specialmente sul riciclo dei capi in pelle e, tenendo molto in considerazione il lato etico, utilizza quella più ecologica e sostenibile, per la quale trova appoggio anche dagli stessi animali. 

Con una nota di sarcasmo, infatti, posta sul sito web una mucca che apostrofa di essere una grande fan della pelle riciclata. La pelle riciclata è una valida opzione sostenibile per dare vita e riutilizzare ciò che già esiste e fa bene sia all’ambiente che al portafoglio. Non contiene plastica o derivati del petrolio e non ha bisogno di tanta cura, ma basta qualche accorgimento per far durare a lungo gli articoli con essa creati. Tutto ciò, inoltre, non genera differenze con la vera pelle, perché comunque si mantiene lo stesso aspetto e la stessa sensazione al tatto e all’olfatto e consente perciò di avere un prodotto a prezzi inferiori ma pur sempre di alta qualità.

La pelle, il denim, vecchi prodotti dell'esercito e gli scarti post-consumo vengono recuperati principalmente dagli Stati Uniti e dal Canada, per poi essere rilavorati in Cambogia e Thailandia. 

Vengono rianimati principalmente in giacche uniche e vintage, ma anche in borse, gonne e jeans nuovi e di tendenza. 

Lo stile si rifà al Punk Rock e al Rock n Roll, unendo così la musica con la sostenibilità, verso un cambiamento più verde per inquinare meno.

L'obiettivo è ridurre gli sprechi nel settore della moda riutilizzando quei tessuti scartati ancora durevoli che altrimenti finirebbero in discarica.  

Sophie Schandorff ha spiegato che “l'idea è di educare il consumatore e fornire una scelta migliore per il pianeta che non inquini l'ambiente e non danneggi più gli animali. Quindi, ovviamente, vorremmo vedere più aziende lavorare con il riutilizzo creativo (il cosiddetto upcycling)”. 13                         

Dal punto di vista della sostenibilità, è un brand attivo che manifesta la sua filosofia anche con campagne contro la produzione eccessiva, l'uso di sostanze chimiche nel processo di produzione e la macellazione non necessaria degli animali. 

Tiene molto in considerazione le condizioni di lavoro dei dipendenti e gli impatti ambientali che le industrie della moda hanno sull’ecosistema: ad esempio, visto che non si produce mai un articolo ex novo e quindi l’acqua viene adoperata solo per pulire i materiali vintage, ne viene utilizzato solo 1 litro per realizzare una giacca e mezzo litro per una borsa. Ciò significa risparmiare più di 30.000 litri di acqua per giacca, ovvero oltre 40 anni di acqua potabile a persona, e 15.000 per borsa. Ogni articolo venduto è acqua risparmiata. Dal 2010 sono stati risparmiati 1.330.000.000 litri di acqua. 

Tutti questi dati che vengono espressamente esposti nella pagina iniziale vogliono mettere in evidenza che è possibile il progresso e, se si è fermamente propensi ad intraprendere un cambiamento ed adottare quindi un diverso approccio nella produzione e nel consumo, non si possono che ottenere grandi soddisfazioni, personali ma anche per il bene della Terra.

La green economy che il marchio persegue viene ripresa anche nella presentazione di ogni prodotto. Ogni sezione che descrive un capo specifico contiene uno storytelling che sottolinea la personalità dell’articolo: 

  • da quale periodo si sono ispirati (generalmente dagli anni 70 e 80); 
  • da dove viene (“travelled from many places”, oppure, per la giacca “Nancy”, sono andati “through countless vintage punk jackets from Germany to Sweden and back to Denmark carefully picking the details of each jacket”), quindi evidenziano la tracciabilità del prodotto;
  • la sostenibilità del suo processo (“not undergoing any chemical processes”);
  • i valori emotivi del brand (“touch of years”);
  • come ci si sente indossandolo (“be one of a kind”, “it enables you to stand out”), che ribadisce quindi la ricerca per raggiungere l’unicità nel suo genere che permette di distinguersi, visto che non ci sono mai due pezzi uguali, ogni prodotto è leggermente diverso l'uno dall'altro proprio perché è stato utilizzato materiale riciclato ("unique vintage leather", “original wear”).

In più, sprona la comunità rivolgendosi direttamente al cliente con la call to action “Join the Green Revolution”, come ribadire “armiamoci e cambiamo verso un sistema più verde”. 

Sottolinea perciò ancora una volta il suo lato rivoluzionario, ma anche quello evolutivo e quello più amorevole (all’interno della parola “REVOLUTION” si inseriscono i sostantivi “EVOLUTION” e “LOVE”), rifacendosi ai tre pilastri che han dato origine al nome del marchio (Che Guevara, il rivoluzionario, Pelè che ha evoluto il gioco del calcio). Con l’amore, richiamando quello che Coco ha sempre messo nelle sue creazioni, si vuole enfatizzare l’attaccamento all’ecosistema e la voglia di perseguire pratiche ambientali corrette. Parallelamente, l’evoluzione presuppone una volontà che il pensiero delle persone sull’acquisto di prodotti sostenibili sia più consapevole e propenda verso un miglioramento. 

In merito alla questione etica Sophie Schandorff dichiara: “Ottenere i tuoi vestiti prodotti da donne e bambini sottopagati in grandi fabbriche non sicure in India, Cina, ecc. è più economico e alla gente piace chiudere un occhio sulla sofferenza del mondo solo per poter ottenere quel nuovo vestito H&M. È super triste. (...) Se non hai un profilo verde, penso che tu sia completamente irrilevante come marchio”. 14


CONCLUSIONI

Vista l’abbondanza di rifiuti, gli enormi problemi ambientali e sociali e il fatto che nel mercato spuntano sempre nuovi attori, per distinguersi le aziende dovrebbero esprimere il loro sostegno nel prendersi cura del pianeta e diventare più eco-friendly. 

Con decisione, devono investire per uno shopping più etico e sostenibile per l’ambiente e comunicare con trasparenza. Solo ciò farà loro ottenere più credibilità e più fama.

Dal punto di vista del consumatore, non gli si dice di non comprare più, ma semplicemente di farlo più responsabilmente: bisogna prediligere la qualità rispetto alla quantità e indossare gli abiti più a lungo, perché TUTTI siamo responsabili dei cambiamenti. È una questione di scelta. 

Bisogna fare scelte più consapevoli ed adottare un approccio durevole e ciclico: riduci, riutilizza e ricicla. 

Mio padre mi ripete spesso un detto russo che quando sono andata a San Pietroburgo, colleghi russi mi hanno confermato che è piuttosto popolare: “Мы недостаточно богаты чтобы позволить себе тратить мало”, ovvero “NON SIAMO ABBASTANZA RICCHI DA POTERCI PERMETTERE DI SPENDERE POCO”.                                                                                               


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

1.     Tim Edwards, “La moda: concetti, pratiche, politica”, 2012, Einaudi (per il capitolo 1).

2.     Hines (2004, pp. 89-90) in “Fashion retailer desired and perceived identity”, capitolo 12, p. 237, in “Fashion Marketing. Contemporary issues” – second edition, 2007, by Tony Hines and Margaret Bruce.

3.     “Retail brand marketing in the fashion industry”, capitolo 6, pp. 110-111, in “Fashion Marketing. Contemporary issues” – second edition, 2007, by Tony Hines and Margaret Bruce.

4.     Daxue Consulting, “Fashion Industry in China: Analysis of the world’s largest fashion market”, 25 giugno 2020. Disponibile su: https://daxueconsulting.com/fashion-industry-in-china/

5.     Donald N Sull, Stefano Turconi, “Fast Fashion Lessons”, in Business Strategy Review, London Business School, maggio 2008, pp. 5-6.

Versione originale: “Fast fashion describes the retail strategy of adapting merchandise assortments to current and emerging trends as quickly and effectively as possible. (…) Fast fashion retailers have replaced the traditional designer-push model – in which a designer dictates what is “in” – with an opportunity-pull approach, in which retailers respond to shifts in the market within just a few weeks, versus an industry average of six months. (…) The message for traditional mass merchandisers and specialty clothing retailers is clear: they must refresh their inventory more frequently if they hope to capture the fast fashion crowd”.

6.     Classifica 2020 dei Best Global Brands di Interbrand. Disponibile su: https://interbrand.com/best-global-brands/

7.     Nathalie Remy, Eveline Speelman e Steven Swartz, “Style that’s sustainable: A new fast-fashion formula”, in McKinsey & Company, 20 ottobre 2016. Disponibile su: https://www.mckinsey.com/business-functions/sustainability/our-insights/style-thats-sustainable-a-new-fast-fashion-formula  

8.     Hasan Minhaj, “The ugly truth of fast fashion”, 25 novembre 2018. Video disponibile su:https://www.youtube.com/watch?v=xGF3ObOBbac

9.     Zygmunt Bauman, “L’etica in un mondo di consumatori”, Laterza, Bari, 2010, pp. 187-188.

10.  Green Strategy (2014), “What is sustainable fashion?”. Disponibile su: https://www.greenstrategy.se/sustainable-fashion/what-is-sustainable-fashion/

Versione originale: “Sustainable fashion can be defined as “clothing shoes and accessories that are manufactured, marketed and used in the most sustainable manner possible, taking into account both environmental and socio-economic aspects”. 

11.  https://pelechecoco.com

12.  Lucia Valentini, intervista via email alla responsabile del design Sophie Schandorff, 12 novembre 2020. 

Versione originale: “The name comes from football player Pele, Che Guevera and Coco Chanel. Pele for skill. Che guevara for being rebellious and changing the status quo. Coco Chanel for style and doing things different. Three things we felt creating Pelechecoco would do. We created a new sustainable way to make a leather jacket in a way that had never been done before like Pele with he played football. We challenged the fast fashion industry by creating a product that didn't use chemicals, over produced, killed animals like Che we challenged the way things were done. We make beautiful slow fashion designs that never goes out of fashion like Coco Chanel”.

13.  Design – longevity. Disponibile su: https://designforlongevity.com/articles/pelechecoco-1

Versione originale: “The idea is to educate the consumer and provide a better choice for the planet that does not pollute the environment or harm any more animals. So, of course we would like to see more companies work with upcycling”. 

14.  Marie Deichmann Eriksson, “INTERVIEW WITH SUSTAINABILITY ENTHUSIAST AND DESIGNER OF PELECHECOCO SOPHIE SCHANDORFF”, in “The official newsletter of CBS Climate Club. THE CLIMATE JOURNAL. Only fools do not believe in climate change”, Vol. 3, Oct 2019.

Versione originale: “Getting your clothes produced by underpaid children and women in large unsafe factories in India, China etc. is cheaper and people like to turn a blind eye to the world’s suffering just so they can get that new H&M dress. It is super sad. (...) If you do not have a green profile, then I think you are completely irrelevant as a brand”. 



[1] Interbrand è la società di consulenza globale sul marchio che pubblica il rapporto Best Global Brands (migliori marchi al mondo) su base annuale ed identifica i 100 marchi più virtuosi al mondo. I criteri che usa per qualificarli sono che essi devono essere presenti in almeno tre continenti principali e devono avere un'ampia copertura geografica nei mercati in crescita ed emergenti.


[2] L’economia circolare è, in contrapposizione a quella classica lineare, un sistema economico per il quale i rifiuti sono risorse utili, vengono riciclati così da dare loro una nuova vita, e poi riutilizzati.

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