L'incertezza del dono: fundraising, filantropia e legame sociale
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L'incertezza del dono: fundraising, filantropia e legame sociale

Donare è un'attività al tempo stesso sociale ed economica, affettiva e razionale.

Cosa accade oggi al dono, nel momento in cui si parla di crisi del welfare state e si rilancia anche nelle socialdemocrazie europee il valore della sussidiarietà pubblico-privato?  E soprattutto cosa implica la filantropia  di un business sempre più attento a cercare di ricostituire la fiducia dei consumatori per far fronte alla crisi economica? Si sperimentano, in effetti, nuove tecniche di marketing che tendono a ridurre il dono ai suoi aspetti economico-razionali, proprio nel tentativo di governarne le dimensioni simboliche ed affettive.

In primo luogo si sottopone il dono ad un imperativo di reciprocità: ti dono qualcosa (spesso non mi chiedo neppure se sei disposto a riceverlo) e in cambio ricevo qualcos’altro, anche solo un beneficio simbolico immateriale, purché si garantisca risposta alle esigenze di un homo oeconomicus dominante.

Nel caso della comunicazione umanitaria, Luc Boltanski mostra la spinta emotiva che il fund-raiser provoca nel donatore attraverso immagini forti che raffigurano a distanza lo spettacolo della sofferenza subita dalla vittima: di fronte ad un infelice lontano ma ravvicinato dall'immagine mediatica, per economizzare il disagio di non poter far nulla in modo diretto, la donazione individuale offre l’opportunità di riportare l’attenzione del donatore sulla propria personale benevolenza.

Nel cause related marketing, un’azienda manifesterà in maniera pubblica la propria “donazione” a favore di una causa, scegliendola con cura fra quelle ritenute più sensibili per i propri consumatori, in maniera da riceverne valore per il proprio brand.

Anche nelle relazioni interpersonali si considera l’obbligo di reciprocità, in nome dell’esigenza economica di non lasciare un debito insoluto. E così gettare le basi di una disciplina tanto utile al marketing che oggi va sotto il nome di “relazioni pubbliche”.

Il dono come dépense gratuita  (es. il potlatch nella lettura di Marcel Mauss e Georges Bataille) rappresentava una dimensione pre-economica posta alla base della relazione sociale: cementava un legame simbolico, a partire dal quale discendevano in seguito regole specifiche connesse alle situazioni concrete.

Il dono di scambio appare invece un po’ come il voto di scambio: mercificato, non è più dono, è solo scambio economico di favori, merci, relazioni. Vale la pena, allora, continuare a chiamarlo dono?

Meglio, in effetti, parlare di raccolta fondi (fundraising  e ora anche l’interessante sviluppo partecipativo del crowdfunding), quale attività del resto dotata di apposite strategie in uno scenario sempre più competitivo e concorrenziale. Con grandi opportunità di determinazione: si può, infatti, e a ragione, chiedere accounting, resoconto sull’uso del “dono” o del “fondo investito”.

Le tecniche più recenti di fundraising e crowdfunding non a caso propongono l’acquisto e la scelta diretta di “pacchetti” o progetti su cui “investire” il dono (la tal ricerca, il tal servizio ospedaliero, la tal borsa di studio, il tale servizio di aiuto o assistenza, la tale idea di business ecologico o di start up innovativa, etc.), in una logica di fitta concorrenza che richiede fini arti di persuasione per spostare la scelta del donatore-investitore sulla propria causa, presentata come più urgente, più importante, o emotivamente più attraente di altre.

Diversa è una sua giustificazione sociale in termini di giustizia e di equità, come ad esempio quella che fondava le basi legittimanti del welfare state. Oggi essa appare poco solida, e anzi sempre più incrinata: troppo incerta a causa - si dice - di un cattivo governo delle risorse, se non di una spinta corruttiva che ne avrebbe inquinato le fondamenta. 

La crisi della giustificazione simbolica del dono segna, forse, la fine del dono stesso, inteso come interstizio di irriducibile incertezza nelle relazioni sociali. Oggi, la governabilità strategica dei processi è diventata un valore troppo importante per non includere nelle sue tattiche anche il dono. Altrimenti esso rischia di apparire inutile spreco o dispendio. Offerte o doni buttati via e non utilizzati per una causa “vera”.

La causa per cui donare o su cui investire: la si colloca sul mercato delle idee come “vera e giusta per me”. Sono io che scelgo: ossessione individualistica del controllo anti-fiduciario, nell’ipotesi che con la razionalità tutto possa essere governato a fin di bene (un bene a sua volta individuale o almeno individuabile). Meglio donare scegliendo la “propria causa” che ridistribuire la ricchezza collettiva attraverso le imposte progressive sul reddito: il controllo del dono-scambio appare più lineare, e la sfiducia nelle istituzioni alimentata da sapienti notizie di mala amministrazione lo dimostra. Il controllo che il welfare richiedeva appare infatti rischioso proprio perché di tipo pubblico:  dimensione collettiva che vagliasse pubblicamente i parametri di redistribuzione e di equità, slegandoli da meriti supposti individuali per comprendere ogni volta cosa fosse più o meno prioritario. L’idealizzazione della dimensione pubblica del dibattito è dunque sfumata sotto i colpi della mercificazione informativa, la scarsità delle buone notizie e la spirale della corruttibilità o del malaffare.

Per compensare le carenze residuali di fondi collettivi considerati ingovernabili, resta il fund giving filantropico, sussidiarietà in veste di dono, inteso come (presunta) libertà di individuare una causa che tocchi in modo particolare e raggiunga al momento risonanza più o meno contingente (uno tsunami, un terremoto, una carestia, una campagna virale particolarmente azzeccata che proponga di investire risorse di ricerca e di assistenza in una particolare malattia a discapito di un’altra, un'idea d'impresa politically correct, etc.).

Ogni pubblica istituzione, università compresa, dovrà dunque attirare fondi. Vince ed è meritevole non tanto quella che avrà servito meglio fini collettivi (del resto, mutevoli: quali sono e soprattutto chi e come li stabilisce in un mercato neoliberistico di idee e valori? chi ha maggiore forza contrattuale ed economica per supportare advocacy?). Vince, piuttosto, la causa - o l’organizzazione - che meglio sarà riuscita a convincere della propria capacità di governo delle risorse, comprovandolo con aumenti di efficienza e di produttività misurati con parametri persuasivi, così da permetterne pubblica comunicazione, ad esempio in qualche ostentata scala di rating.

Il predominio dell’economia (liberistica, of course) lascia spazio al dono coinvolgendolo in uno strano paradosso, che forse costituisce una delle contraddizioni del nostro tempo: liberamente scelto, sia nel tempo sia nell’oggetto, si sottopone all’obbligo di un marketing da cui ci si attende che sappia razionalmente orientare e governare le risorse, per fare in modo che il sistema delle libertà tenga.

In fondo, si dice, il modello statunitense della filantropia sembra aver sostenuto una delle economie più ricche del mondo: il dono (dei ricchi) è servito e si è messo al servizio di tante cause lasciate scoperte da un welfare sempre più debole. Così scriveva una decina d'anni fa Nicolas Guilhot:

“La filantropia è un fenomeno di secondo livello, che si può capire solo sulla base di una pratica di accumulazione di ricchezza che ne è necessariamente il primo livello”.

Concepita dallo stesso autore come “tentativo di razionalizzazione dei problemi sociali”, la filantropia di chi si è arricchito dona e finanzia fondazioni che offrono giustificazione morale allo sviluppo dei capitali, proponendosi intenti di inclusione-moralizzazione di chi ne è sprovvisto. Un esempio recente di controversia sulle implicazioni di grandi donazioni annunciate a gran voce dai nuovi ricchi del web riguarda, dopo Bill e Melinda Gates,  il fondatore di Facebook Marc Zuckerberg, il quale subito dopo la nascita della figlia annuncia di costituire una fondazione (rivelatasi una LLC, società a metà tra la fondazione e l'impresa, con fiscalità vantaggiosa) a cui destinare il 99% delle sue azioni, per interventi educativi per l'infanzia e diffondere internet nel pianeta.  Si sottolinea in questi dibattiti che in tal modo sia i Gates sia la coppia Zuckerberg tendono a porsi al di sopra dello Stato, per varie ragioni:
- dando pubblicità alle proprie grandi donazioni cercano di rispondere all'incalzare di contestazioni contro l'eccesso di ricchezza,
- vogliono sfuggire ad ulteriori imposte,
- pretendono di scegliere in prima persona le cause da perseguire,
- orientano le politiche sociali e privilegiano quelle che favoriscono i loro profitti. Così si legge ad esempio in un post belga dedicato alla "profittevole carità di Zuckerberg e compagnia": 

“Zuckerberg e consorti ci riportano al XIX secolo, un'epoca in cui i poveri e gli affamati erano  completamente lasciati alla mercé dei capricci dei fortunati benefattori”

In tale prospettiva, specie a partire dagli anni 1990, il cause related marketing diventa:

“una dimensione cruciale per vendere e legittimare la privatizzazione e la commercializzazione dell’attività di servizio sociale, un’attività che nella teoria democratica liberale era al cuore della governance moderna” ( Stole 2008).

Uno degli effetti di questa liberalizzazione è il ben noto “cherry-picking”: dare priorità a cause ed organizzazioni più note, suscettibili di offrire maggiore capacità di relazione e pubblicità alle imprese “investitrici-donatrici”. Il trend di valore dell’investimento-dono trae vantaggio dalla risonanza culturale che la causa solleva, come anche dalla capacità e dalla portata di relazioni a cui dà luogo. Ciò tende a rendere meno competitive organizzazioni piccole e temi sociali di minor impatto seduttivo (ad es.: tende ad essere più attraente una donazione a favore di enti molto noti o di istituti che si occupano di tumori che non per contrastare la malattia mentale o la sieropositività HIV). Basta persino scorrere le tabelle di distribuzione dei beneficiari del 5 per mille in Italia per rendersi conto delle enormi disparità di fondi attribuiti, non necessariamente in termini di numero di contribuenti ma anche di tipo di scelta da parte dei contribuenti più facoltosi.

Un ulteriore effetto di cui si parla meno – e i cui dati sono difficili da rilevare - è il ritorno in termini di fatturato per le imprese, le quali tendono a sottolineare più il dono (investendo risorse aggiuntive per pubblicizzarlo) che non l’obiettivo di business perseguito, implicando talora una possibile disillusione nei consumatori.  Così scrive su The Guardian George Monbiot

“non appena le aziende sembrano aver colmato il divario che hanno contribuito a creare, possono presentarsi come veicoli indispensabili per le esigenze sociali, offrendo così argomenti a favore di un’ulteriore diminuzione dei servizi statali”.

In questo quadro, restano sempre dei “non meritevoli” (di dono “economico”): quelli che non ce la fanno perché non ce la “vogliono fare” (!), rimangono homeless o rifiutano persino la carità dell’esercito della salvezza, “preferendo” rimanere outsiders irriducibili. Paradossi della libertà individuale.

Margarida Lalanda

Professora at Universidade dos Açores

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Mes félicitations chaleureuses pour ce regard lucide, critique, et si bien transmis, Pina Lalli !

Andrea Pancaldi

Giornalista, esperto di servizi di informazione e documentazione nel campo dei servizi sociali, disabilità, terzo settore

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