fbpx Il clima secondo Aristotele: una scommessa vinta in partenza | Scienza in rete

Per mobilitarsi sul clima servono ethos, pathos e logos

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Il clima, Aristotele e l'arte della retorica: in quest'articolo, Simona Re parla di come ethospathos e logos, possano aiutarci ad affrontare l'emergenza climatica attraverso strumenti di dialogo e di partecipazione attiva, per consentire alla gente di informarsi, confrontarsi e far sentire la propria voce.
Immagine: proteste in Australia.

Nella lotta contro il cambiamento climatico, la nostra specie ha tutti gli strumenti per vincere. Abbiamo capito il problema (il riscaldamento è provocato dalle emissioni di gas serra), conosciamo le soluzioni (dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni), e iniziamo a toccare con mano i pericolosi effetti dell’inazione (migranti, ondate di calore, fusione dei ghiacci, incendi, siccità, eventi meteorologici estremi). Tuttavia, conoscere cause, conseguenze e soluzioni può non bastare per innescare la necessaria reazione a un problema. Sensibilizzare e coinvolgere cittadini e governi sulla questione climatica non è cosa semplice.

Cosa manca alla nostra strategia di sopravvivenza per poter funzionare? Forse semplicemente un innesco. Vale a dire, la reale percezione del problema e la giusta motivazione. Una carota in cima al bastone. Parliamo di Aristotele, di emozioni e di comunicazione, di citizen science e di co-benefici della mitigazione.

Un problema da percepire

Per spiegare la scarsa consapevolezza del cambiamento climatico, le ragioni son più d’una. Le prime riguardano la distanza geografica e temporale degli effetti, la cui ampiezza può portarci a sottovalutare i rischi e pericoli a cui siamo esposti. Così, dal trasloco della capitale indonesiana sommersa dall’acqua agli incendi che mettono in ginocchio l’Australia, la sensazione errata e diffusa è che questi disastri ambientali non siano affar nostro.

A questo si somma il fenomeno psicologico della “normalizzazione”, per il quale i nostri limiti della percezione temporale ci inducono a classificare le anomalie climatiche e meteorologiche come eventi ‘normali’. Nei più maliziosi e digiuni di scienza, a remare contro la consapevolezza del problema è la scarsa familiarità con le nozioni scientifiche, che può spiegare la limitata comprensione del fenomeno.

Infine abbiamo il rifiuto psicologico. Si tratta di un meccanismo di difesa che ci porta a ignorare o negare le situazioni che minacciano la nostra zona di comfort, e che si traduce nella refrattarietà dei complessi sistemi economici quanto delle più semplici abitudini quotidiane.

Eppure, le soluzioni per scongiurare queste insidie psicologiche esistono. Aristotele definisce la retorica come la “la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto”, o argomento. Secondo il filosofo greco, l’arte della persuasione si fonda su tre principi. Ethos, ovvero la forza morale dell’oratore; pathos, cioè l’emotività dell’interlocutore; e infine logos, la logica del discorso.

Ethos, la credibilità delle fonti

L’ethos riguarda la capacità morale e la credibilità dell’oratore. In tema di clima e di informazione, il pensiero va ai politici, al sistema scolastico, agli scienziati, e naturalmente ai media. I segnali provenienti dalla politica italiana sono ancora discordanti. Alla dichiarazione di emergenza climatica e l’impegno a definire una legislazione per la riduzione delle emissioni, si contrappongono i timidi e controversi sforzi del Decreto Clima e del Piano Energetico Nazionale, nei quali manca tuttora il decisivo taglio dei sussidi fossili. In attesa dei risvolti pratici di impegni e dichiarazioni, per il giovane Conte bis resta congelato, per il momento, il pericolo di bocciatura al primo test aristotelico sulla persuasione.

Promettenti sono gli sforzi del sistema scolastico, essendosi l’Italia aggiudicata il titolo di primo Paese al mondo che prevede l’obbligo dell’insegnamento del cambiamento climatico e della sostenibilità sui banchi di scuola.

Negli ultimi mesi, persino la stampa sembra fare alcuni progressi, e il tema del clima inizia a fare la sua comparsa su quotidiani e telegiornali. Tuttavia, guardando alle rubriche e i contenuti interattivi (ad esempio qui e qui) del New York Times e le iniziative lessicali di The Guardian, quanto a fantasia e intraprendenza, molti giornalisti del Bel Paese avrebbero di che arrossire di fronte alle iniziative delle testate internazionali. I principali canali sull’informazione sul clima in Italia includono oggi blog e siti internet di esperti come Climalteranti.it, Il Kyoto fisso di Le Scienze, Climate facts and opinions, Icona Clima, Pillole di Mercalli per Rai News, e il sito di Luca Lombroso.

Tuttavia, a dispetto di queste fonti, manca ancora nei nostri media la necessaria attenzione a contenuti e notizie. Un esempio riguarda le ricostruzioni della recente COP25. Secondo alcuni esperti, la definizione diffusa di “un fallimento già annunciato” sarebbe troppo semplicistica e fuorviante, in quanto incurante degli specifici obiettivi tecnici del summit e della fase preparatoria rispetto al cruciale incontro di Glasgow (novembre 2020), che prevedrà l’effettivo rilancio degli impegni dei governi. Altro esempio riguarda gli effetti locali del riscaldamento globale. L’aumento degli eventi meteorologici estremi, che fanno dell’Italia il sesto Paese al mondo per numero di vittime (più di 1.000 ogni anno), sembrano infatti non bastare a molti giornalisti per riconoscere esplicitamente i pericolosi effetti del cambiamento climatico in atto.

Voto di Aristotele: 5. Secondo il filosofo, sul cambiamento climatico serve un’informazione più lucida, credibile e responsabile.

Pathos, il coinvolgimento dell’interlocutore

Secondo Aristotele, il discorso dell’oratore deve suscitare un’emozione in grado di coinvolgere l’interlocutore. A questo proposito, la comunicazione del clima non può limitarsi a discutere dell’aumento della temperatura globale e a raccontare catastrofi ambientali. Secondo gli psicologi infatti, le minacce e gli avvertimenti hanno un impatto molto limitato sul nostro comportamento, e rischiano persino di generare un effetto boomerang.

Per ovviare all’inconveniente, il Tyndall Centre for Climate Change Research propone ai comunicatori un approccio più efficace e positivo. Secondo il metodo DEVCO (Dialogue-Emotions-Values in COntext), il pubblico va coinvolto, e non solo informato. Agli opinion leader, decisori politici, scienziati e comunicatori si suggerisce di non affidarsi ai soli dati scientifici, ma di dare una maggiore attenzione ai valori condivisi e ai sentimenti delle persone, favorendo la nascita di nuove connessioni umane. Parlando lucidamente di impatti e di differenti scenari, di soluzioni realistiche e di obiettivi intermedi, con una maggior attenzione alla prospettiva locale.

Per quanto riguarda gli strumenti, gli esperti raccomandano di sfruttare al meglio il potenziale delle piattaforme online, dove il tema del clima è ancora trattato in modo sporadico o settoriale. Ma non solo. Se ciò di cui necessitiamo è una comunicazione più limpida, spiccia ed emozionale, in grado di raggiungere non solo un pubblico più ampio ma anche (e soprattutto) quello meno sensibile e più disinformato, allora una crescente contaminazione dei canali e delle forme di espressione può giovare ai nostri scopi. Le promesse vengono dal filone innovativo della climate fiction (Cli-Fi) e dalle emergenti iniziative di sensibilizzazione dal mondo dell’arte. Oltre a film, romanzi e fumetti, abbiamo ‘i capolavori che si sciolgono’ di Alper Dostal e la collaborazione di Museo del Prado e WWF. Il remix di Fatboy Slim dedicato a Greta Thunberg e i brani ecologisti di Michael Stipe, i ripetuti arresti di Jane Fonda per le proteste sul clima e l’impegno dei Coldplay a organizzare tour a zero emissioni.

Voto di Aristotele: 4. Quanto a pathos, il filosofo ci invita a lavorare sodo su tutti gli elementi fondamentali: dall’adozione di un approccio coinvolgente e propositivo, all’utilizzo efficace di strumenti e forme di comunicazione.

Logos, la logica del messaggio

Una famosa vignetta del premio Pulitzer Joel Pett, tornata a circolare nei giorni della COP25, ritrae un burocrate appesantito che penosamente si domanda “E se si rivelasse tutto una grande bufala, cosa ce ne faremmo poi di un mondo migliore?”. Sullo sfondo, i negoziatori della COP parlano di indipendenza energetica, salvaguardia delle foreste, sostenibilità, green job, rinnovabili, e qualità dell’aria.

La logica è semplice: perché osteggiare e rimandare l’impegno a contrastare il cambiamento climatico, giacché la medesima risposta ci consentirebbe di risolvere tanti problemi ambientali, economici e di salute? Quelli citati da Pett si chiamano co-benefici della mitigazione del cambiamento climatico, e includono la creazione di valore economico a livello locale, nuove opportunità di lavoro, migliore qualità dell’aria, accesso a forme di energia convenienti, sviluppo rurale, come anche i vantaggi in salute derivanti dalla una mobilità e un’alimentazione sostenibile. Si tratta di benefici diretti per i cittadini e per numerosi settori della pubblica amministrazione: economia, agricoltura, lavoro, trasporti, sanità, ambiente e immigrazione (vedi "Una strategia per combattere il cambiamento climatico", Scienza in rete, 15 maggio 2019).

Come risultato della scarsa attenzione delle politiche a questi temi, gli strumenti partecipativi si limitano oggi a iniziative sporadiche e isolate, che necessiterebbero di essere meglio sviluppate e integrate. Dai sensori indossabili e tecnologie mobile per monitorare l’esposizione agli inquinanti (esposomica), alla citizen science per la biodiversità, la qualità dell’aria e l’ambiente marino, fino alle app e social network sulla sostenibilità.

Quanto all’efficacia dell’approccio basti guardare al caso di Cape Town, i cui cittadini hanno superato con successo una recente crisi idrica grazie all’ingegnoso utilizzo di piattaforme social e gamification. D’altra parte, in assenza di un supporto concreto da parte di politici e amministrazioni, la citizen science italiana resta al momento un bel carro senza buoi.

Infine, un’efficace strategia di partecipazione dovrebbe contemplare il più semplice degli strumenti: il dialogo con la società civile. In l’Italia, la diffusione dell’attivismo climatico, le comunità dal basso sulla sostenibilità e, persino, le prime iniziative di boicottaggio degli acquisti low cost, sono la dimostrazione di una crescente propensione ecologica che necessita di essere meglio accolta e supportata. In questo senso, un esempio virtuoso di impegno nel coinvolgimento del pubblico viene da Italian Climate Network, associazione di volontari ed esperti impegnati nell’informare e connettere cittadini, aziende, gruppi locali, autorità pubbliche e ONG sul tema del clima.

Voto di Aristotele: 3,5. Salvo rare eccezioni, il contributo dei cittadini nella lotta al cambiamento climatico è ancora ignorato. Serve una rivoluzione dell’approccio.

Un problema da metabolizzare (presto)

Per scongiurare la crisi climatica bisogna attuare un’urgente conversione del sistema produttivo ed energetico. Tuttavia, i progressi fatti in questa direzione sono ancora insufficienti. Se coloro da persuadere sono i decisori politici ed economici, da che “la sovranità appartiene al popolo”, il ruolo di elettori e consumatori meriterebbe una maggior attenzione. L’impegno dei cittadini non può limitarsi a manifestare nelle piazze e a postare messaggi ecologisti sui social. Secondo un moderno Aristotele, per armare e unire i cittadini nella lotta al cambiamento climatico servono un’informazione più efficace, sincera e coerente, che parla di soluzioni, di benefici e di nuovi scenari. Servono nuovi strumenti di dialogo e di partecipazione attiva, per consentire alla gente di informarsi, confrontarsi e far sentire la propria voce.

Lo sforzo da mettere in atto è titanico, ma non impossibile: per un taglio del 7,6% delle emissioni è necessario che i nostri governi quintuplichino il loro impegno per la decarbonizzazione. Come evidenzia l’Emission Gap Report delle Nazioni Unite, per limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C dieci anni fa sarebbe bastata una riduzione del 3,3%. Nel 2025 il traguardo diventerebbe pressoché irraggiungibile (15,5%). L’urgenza e le dimensioni del problema sono disorientanti, e il tempo stringe. La buona notizia, per la più grande scommessa nella storia dell’umanità, è che abbiamo tutte le carte per vincere.

Nella comunicazione del cambiamento climatico, è sempre più chiaro, servono più che dei "narratori di sventura". Per superare i sentimenti di sopraffazione, ansia, paura e impotenza di fronte alle crisi in corso e alle sfide apparentemente insormontabili, le persone hanno bisogno di una vera speranza. Questa speranza può essere costruita solo partendo da obiettivi realistici, un percorso chiaro o almeno immaginabile, da compiti fattibili e un ruolo significativo nell'affrontare i problemi, a portata di mano. La speranza prospera laddove un lavoro così arduo è intrapreso insieme. Come ben afferma il giornalista ambientale e blogger David Roberts: "Quando chiediamo speranza, allora, credo che [...] quello che stiamo chiedendo sia una comunione. Il peso del cambiamento climatico, come qualsiasi altro peso, è più facile da sopportare insieme agli altri". Susanne C. Moser, in Hansen Anders & Cox Robert (2014) Handbook on Environment and Communication (London, Routledge)

 

Bibliografia
Moore FC, Obradovich N, Lehner F, Baylis P (2019) Rapidly declining remarkability of temperature anomalies may obscure public perception of climate change. PNAS, 116 (11) 4905-10; doi:1816541116
Caserini Stefano, Coyaud Sylvie, Grosso Mario, Lombroso Luca (2019) L’ambiguo insuccesso della COP25. Climalteranti.it, 24 dicembre 2019
Rayner Tim, Minns Asher (2015) The challenge of communicating unwelcome climate messages. Tyndall Centre for Climate Change Research, University of East Anglia, Working Paper 162, November 2015 UNEP (2019)
Emissions Gap Report 2019. Executive summary. United Nations Environment Programme, Nairobi

 


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