Non c’è argomento più interessante della noia. «La noia è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori» scriveva Walter Benjamin: in questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo, entrando così in contatto con gli splendidi arabeschi all’interno della fodera. Ma visto da fuori, sotto quel panno, il dormiente appare grigio e noioso.

Paradossi

Ecco il primo paradosso della noia: alcune delle esperienze più eccitanti e immaginative che possiamo fare nella vita, di quelle che ci segnano e ci trasformano (o almeno ci divertono), viste da fuori sono terribilmente noiose. Quando sogniamo o leggiamo, ad esempio, il bello accade tutto dentro la nostra testa, e chi ci guardasse dall’esterno vedrebbe solo un corpo immobile. C’è qualcosa di più noioso di osservare una persona leggere, giocare ai videogiochi o dormire? Niente.

Eppure Twitch, una delle più grandi piattaforme di streaming che già nel 2018 contava 15 milioni di utenti attivi al giorno, è nata e tutt’ora fiorisce proprio trasmettendo ragazzini che puntano la webcam su loro stessi, mostrandosi mentre giocano ai videogames. Sempre su Twitch (servizio di proprietà di Amazon), una ragazza trasmette di fatto tutta la propria vita (noiosa, come mediamente tutte le nostre vite) in diretta, lasciando la webcam accesa anche quando dorme, ricevendone traffico e visualizzazioni: evidentemente ci sono non poche persone che ritengono interessante vedere una sconosciuta dormire, e intanto lei fa soldi letteralmente dormendo.

È celebre la frase di Reed Hastings, il Ceo di Netflix, che una volta disse «Il nostro concorrente è il sonno». Se Netflix, e in generale le piattaforme digitali, possono fare soldi sulla nostra noia, sulla nostra assurda paura della noia, riempiendo ogni istante di veglia con qualche stimolo interessante, perché allora non posso direttamente io monetizzare ogni momento della mia vita e lavorare sempre, anche quando dormo?

Insomma, c’è un nodo ingarbugliato ma decisivo che lega noia e attenzione, lavoro e tempo libero, capitalismo delle piattaforme e qualità della vita, ma anche identità, presenza a sé, consapevolezza (modi diversi di dire: politica).

Meditazione

Nelle ultime settimane sono usciti due libri che parlano proprio di questo, eppure sono due libri diversissimi, quasi agli antipodi e a nessuno potrebbe venire in mente di accostarli: Yoga di Emmanuel Carrère (Adelphi, traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) e Come annoiarsi meglio di Pietro Minto (Blackie edizioni).

Le prime cento pagine di Yoga sono dedicate a un soggiorno durissimo dello scrittore in una comunità di «Navy Seals della meditazione». Dieci giorni disconnesso da tutto, senza computer o smartphone ovviamente (fosse così ci metterei la firma anch’io), ma anche senza libri e giornali, senza neanche parlare con gli altri o incrociare lo sguardo: lo sguardo deve essere tutto e sempre rivolto all’interno, alle onde che formano i pensieri e dai pensieri si riverberano.

«La noia è meditazione. Il male alle ginocchia, al collo, alla schiena è meditazione. L’impressione di perdere tempo a fare una boiata pseudo-spirituale è meditazione». Nel corso di queste prima pagine, Carrère inanella tutta una serie di definizioni della meditazione. Ad esempio: «Meditare è fare attenzione. Simone Weil diceva che gli studi servono a questo: non a imparare cose, ne sappiamo già abbastanza, ma ad acuire la facoltà dell’attenzione».

John Lennon, da par suo, diceva che la vita è quella cosa che accade quando sei intento a fare progetti. Per Carrère, è quello che accade quando sei intento a meditare: nel suo caso a bussare al rifugio della “boiata pseudo-spirituale” sarà direttamente la Storia, nelle vesti della strage a Charlie Hebdo del 2015 e da lì il libro prende altri e più tetri sentieri.

Flânerd

Ma lasciamo stare Carrère (se n’è già scritto su queste pagine) e arriviamo al punto: anche a noi, in ogni istante della nostra vita cosciente, qualcuno viene a bussare alla “porta dell’attenzione”. Proprio mentre scrivo questo pezzo, incappo in un meme che affianca due figurine, in pose identiche, con lo sguardo vacuo: solo che una sta meditando e l’altra scrollando il cellulare. «Meditation vs Endless scrolling» dice l’immagine e giù di confronti: con la meditazione “un minuto sembra durare mezz’ora”, con lo scrolling dei social “mezz’ora sembra durare un minuto”; la prima è “così noiosa da essere stimolante”, mentre il secondo “così stimolante da essere noioso”; e così via.

Questo meme, ovviamente, lo trovo postato sull’Instagram di Pietro Minto. “Ovviamente” perché Minto è una figura abbastanza unica per l’Italia di quello che definirei un flânerd, crasi (di mia invenzione) di flâneur e nerd, un vagabondo per le strade meno battute della rete in cerca della curiosità effimera, della bellezza improvvisa, dell’intelligenza gratuita e graziosa.

Lo fa da molti anni con una newsletter di grande successo, Link molto belli, personale Wunderkammer in cui ogni settimana sommaria le scoperte che ha riportato a casa dai suoi giri. Così come il flâneur era nell’Ottocento l’avanguardia più consapevole di ciò che voleva dire vivere nelle nuove grandi metropoli industriali, così il flânerd è colui che fa con maggiore attenzione e coscienza quello che facciamo tutti: vivere nelle nuove grandi metropoli digitali.

Sarà quindi per mettere a frutto l’esperienza di una vita passata a “perdere tempo su internet” (detto tra parentesi: Perdere tempo su internet è il titolo di un bel libro di Kenneth Goldsmith pubblicato da Einaudi proprio su questo tema e sulla sua carica sovversiva), sarà per questo, dicevo, che Minto adesso ha pubblicato Come annoiarsi meglio.

Il valore dell’attenzione

Sotto le mentite spoglie di una sorta di scanzonato manuale di auto-aiuto, con tanto di esercizi da compiere per “annoiarsi meglio”, il libro di Minto è un piccolo trattatello antropologico dal XXI secolo: cioè dall’epoca in cui la nostra attenzione, la nostra concentrazione, è diventata la principale risorsa da cui estrarre valore. Il bombardamento di stimoli, di link interessanti, di notizie terrorizzanti, di tweet per cui indignarci sono la fonte di dopamina di cui i nostri cervelli sono dipendenti: come giocatori d’azzardo che tirano la leva della slot machine sperando nel jackpot, così spippoliamo (neologismo registrato quest’anno dalla Treccani) sui nostri device sperando che “ci esca” qualcosa di interessante, che possa darci quella scarica di dopamina che agogniamo come i drogati che siamo.

Ognuno di noi ha un momento in cui ha preso coscienza (torniamo alla consapevolezza!) di avere un problema con smartphone, app e attenzione: il mio è stato quando mi sono accorto che, ogniqualvolta affiorava un pensiero negativo e ansiogeno nella mia testa, o semplicemente mi ricordavo di una cosa che dovevo fare ma non ne avevo voglia, la mia mano andava in automatico alla tasca interna della giacca dove tengo il cellulare. E lo facevo anche quando non indossavo la giacca.

Secondo il maestro tibetano Chogyam Trungpa, l’essere umano dedica al presente solo il 20 per cento dell’attività celebrale. Un dato, come osserva lo stesso Carrère che lo riporta, assolutamente campato per aria. Ma al di là della sua fondatezza o meno, la morale di questo apologo forse andrebbe ribaltata: non è un invito a essere più consapevoli, ma a pensare che se le dedichiamo così poca attenzione forse è perché la realtà che abbiamo intorno fa schifo.

Con la sua ironia stralunata e gentile, Minto ci fa prendere coscienza di quanto il tempo che perdiamo su internet, i modi in cui le piattaforme risucchiano la nostra attenzione, sia simile ai modi in cui lavoriamo. Le nostre esistenze trasferite online hanno reso evanescente ogni confine tra lavoro e vita privata: ma non perché il lavoro sia noioso, ma perché anche la noia è diventata un lavoro! Quando cazzeggio sui social, scelgo un filtro su Instagram, apparecchio una bella story sul mio profilo, di fatto sto facendo qualcosa di indistinguibile da un lavoro, una performance 24/7 tanto vuota quanto i bullshit jobs con cui ci paghiamo le rate dello smartphone. Meditate gente, meditate.

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