SCIENZA E RICERCA

Pfas: alterano il ciclo mestruale e la fertilità nelle donne

Le alte concentrazioni di composti perfluorurati (Pfas) che inquinano le acque (di falda, dei canali superficiali e degli acquedotti) di 30 comuni iscritti alla zona rossa nelle province di Vicenza, Verona e Padova, interagiscono con il progesterone e alterano i meccanismi che regolano il ciclo mestruale, interferiscono con l'attecchimento dell'embrione e impattano negativamente sulla fertilità. Per la prima volta uno studio individua il meccanismo biologico di azione di questi composti sull'organismo femminile.

A darne notizia è stato Carlo Foresta, ordinario di endocrinologia all'università di Padova, nonché membro del nuovo Consiglio Superiore di Sanità, che ha presentato in anteprima in una conferenza stampa del 27 febbraio i dati di uno studio, iniziato due anni fa e coordinato da lui e da Andrea Di Nisio, che rivela come alcune condizioni patologiche femminili, come l'alterazione del ciclo mestruale, l'endometriosi, difficoltà al concepimento, aborti spontanei, nascite premature e sottopeso, possano essere correlate all'interazione dei Pfas con il progesterone, l'ormone che regola le funzioni dell'utero.

A novembre 2018 il gruppo di Foresta aveva pubblicato su The journal of clinical endocrinology & metabolism i risultati di un lavoro che definiva il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano lo sviluppo del sistema uro-genitale (lunghezza del pene, volume testicolare e distanza ano-genitale ridotti) e la fertilità nei maschi, interferendo con l'attività del testosterone, l'ormone steroideo prodotto nei testicoli che svolge una funzione primaria nello sviluppo degli organi sessuali maschili, nei tratti sessuali secondari come la barba e il timbro di voce, ma fondamentale anche per lo sviluppo muscolo-scheletrico.

I Pfas sono sostanze di sintesi impiegate nell'industria chimica e presenti in diversi materiali: tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti, pellicole fotografiche, schiume antincendio, detergenti per la casa, pitture e vernici, persino farmaci. Proprio le loro proprietà idrorepellenti e oliorepellenti ne fanno delle molecole quasi immortali: i loro tempi di degradazione (emivita) sono molto lunghi.

In realtà sono sostanze a cui è esposta tutta la popolazione” spiega Andrea Di Nisio “perché sono ampiamente utilizzate in quasi ogni forma di packaging alimentare, in padelle antiaderenti o in prodotti cosmetici. Tutti abbiamo un'esposizione minima a queste sostanze. A basse dosi non sono nocive, ma quando si supera una certa soglia di tossicità diventano dannose. Questo avviene principalmente nelle aree rosse del Veneto o in altre aree analoghe nel mondo”.

Quello dell'inquinamento da Pfas è infatti un problema che si estende anche oltre il Veneto; tra le altre, zone della Germania, della Cina, della Danimarca ne sono interessate. Lo scorso 6 febbraio la rivista Nature aveva dedicato un servizio allo sversamento di queste sostanze in diverse falde acquifere degli Stati Uniti. In quest'articolo viene riportato che alcuni studi condotti dalle industrie stesse hanno associato alte concentrazioni di Pfoa (acido perfluoroottanoico) e Pfos (acido perfluoroottansolfonico) a una serie di patologie tra cui il cancro e problemi durante la gravidanza. Nel 2009 con la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti si è convenuto di imporre rigorose restrizioni all'impiego di Pfos e quest'anno è attesa l'inclusione di Pfoa nella lista nera.

La loro struttura rende i Pfas molto simili a molecole organiche come gli acidi grassi, una componente fondamentale delle membrane cellulari, e ad alcuni ormoni.

“L'anno scorso avevamo visto che agivano in maniera molto simile al testosterone” spiega Andrea Di Nisio “e avevamo dimostrato in collaborazione con St. Louis University che si legavano all'androgen receptor, il recettore specifico degli ormoni androgeni che si trova nel citoplasma delle cellule e che una volta legato al testosterone migra nel nucleo. Qui a Padova avevamo dimostrato che se nelle cellule aggiungevamo Pfoa (l'acido perfluoroottanoico, della famiglia dei Pfas, ndr) il testosterone non si legava più al suo recettore nel citoplasma e non lo vedevamo neppure nel nucleo, dove normalmente attiverebbe tutta una serie di geni per svolgere le funzioni cui sarebbe normalmente preposto”.

Ora gli esperimenti condotti in vitro su cellule dell'endometrio dell'utero femminile hanno individuato un meccanismo di azione simile: i Pfas agiscono come interferenti endocrini, in altri termini l'organismo li scambia per degli ormoni.

Noi siamo partiti dall'osservazione clinica di una maggiore prevalenza di alterazioni riproduttive, e in particolare di irregolarità mestruali, nella zona rossa esposta a Pfas”.

In merito a questo la Regione Veneto ha diffuso il 19 febbraio una serie di informazioni aggiornate sull’incidenza dell’inquinamento da Pfas sugli esiti materni e neonatali, confermando quanto già osservato nei rapporti precedenti, ossia un incremento di pre-eclampsia, diabete gravidico e nati con basso peso (che può essere causa di ulteriori complicazioni) nelle aree a maggiore esposizione, oltre ad anomalie congenite al sistema nervoso e difetti congeniti al cuore.

Abbiamo studiato la letteratura scientificacontinua Andrea Di Nisio “per capire qual era lo stato dell'arte e abbiamo visto che la stra grande maggioranza degli studi erano osservazionali. Mostravano che popolazioni di donne più o meno esposte, che magari lavorano in fabbriche che impiegano massivamente queste sostanze (in Germania, negli Stati Uniti, in Cina, in Danimarca), riportavano alterazioni: una maggiore poliabortività e alterazione del ciclo mestruale. Altri dati di letteratura segnalavano la presenza di Pfas nella placenta e nel feto, riportavano dati sull'abortività e su alterazioni del peso alla nascita, ma non dicevano nulla relativamente al meccanismo di azione.

Noi eravamo già a conoscenza dell'azione sul testosterone e, essendo il progesterone un ormone steroideo, simile al testosterone, abbiamo capito che era plausibile che Pfas agisse allo stesso modo sul progesterone. Abbiamo quindi studiato in laboratorio delle cellule endometriali e abbiamo aggiunto in concentrazioni crescenti i Pfas. Abbiamo fatto poi un'analisi di microarray, ovvero uno screening ad ampio spettro di tutti i geni coinvolti nella funzione cellulare e andando a vedere quei geni coinvolti nello sviluppo dell'endometrio e nell'attecchimento delle cellule embrionali a quelle dell'endometrio, abbiamo individuato i geni alterati”.

Il progesterone normalmente agisce su quasi 300 geni, ma in presenza di Pfas 127 vengono alterati. “Non tutti sono coinvolti nel meccanismo di attecchimento embrionale o nello sviluppo dell'endometrio, ma ne abbiamo trovate diverse decine direttamente coinvolti. Laddove il gene doveva essere stimolato, in presenza di Pfas risultava meno stimolato, laddove il gene sarebbe dovuto essere inibito, risultava meno inibito in presenza di Pfas. Questo può spiegare quella cascata di eventi biologici e clinici che si sono osservati finora nella zona rossa e in altre aree internazionali”.

Parallelamente alle analisi in laboratorio sono stati raccolti dei questionari compilati da un campione di 115 ragazze tra i 18 e i 22 anni, residenti delle aree rosse, che partecipano al Progetto Scuola promosso dal professor Foresta. Comparando le loro risposte con quelle di un gruppo di controllo di circa 1500 donne di pari età non esposte all'inquinamento, è emerso “un significativo ritardo della prima mestruazione di almeno sei mesi e una maggior frequenza di alterazioni del ciclo mestruale: ritardi del 30% nelle esposte rispetto al 20% della media” ha dichiarato il prof. Foresta.

I risultati di questi lavori, non ancora pubblicati su una rivista scientifica, verranno presentati il 1 marzo all'interno del XXXIV convegno di medicina della riproduzione che si tiene a Abano Terme dal 28 febbraio al 2 marzo.

Per la prima volta dunque viene individuato il meccanismo attraverso cui l'inquinamento da Pfas agisce in maniera nociva sull'organismo della donna. Trattandosi di molecole i cui tempi di degradazione sono molto lunghi, anche laddove si riuscisse a diminuirne la produzione e di conseguenza la loro presenza ambientale, le concentrazioni già presenti nel sangue degli abitanti delle zone rosse impiegheranno molti anni a essere smaltite. La Regione Veneto aveva iniziato un programma sperimentale di plasmaferesi (sostituzione del plasma) negli individui giovani con alte concentrazioni di Pfas nel sangue. Dopo essere stato somministrato a un centinaio di persone, nel dicembre 2017 il trattamento era stato però sospeso in seguito al pronunciamento negativo del ministro della salute, allora Beatrice Lorenzin, e dell'Istituto Superiore di Sanità, secondo cui la plasmaferesi non costituiva una risposta adeguata.

Oggi, anticipa il professor Foresta, si sta già lavorando a soluzioni alternative di tipo farmacologico. Inoltre sono in corso altri studi per valutare l'impatto di Pfas sul sistema scheletrico.

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