Avrei voluto scrivere giorni fa questo pezzo su Clubhouse, ma non ci sono riuscita. Il motivo è che sono rimasta su Clubhouse, giorno e notte, senza riuscire a smettere. Quando ho ricevuto il primo invito a entrare nell’app l’ho ignorato. E forse avrei dovuto continuare così. Invece un amico, il ballerino della Scala Oliviero Bifulco, mi ha mandato un nuovo invito: «Devi entrare, ti divertirai». A nulla sono valse le raccomandazioni della giornalista Daniela Losini: «Non cedere, la vita è altrove. Io qui ci starò poco, preferisco vivere», che lei stessa non ha rispettato visto che da quel giorno l’ho sempre trovata collegata.

Chi non conosce questo nuovo social network, ideato nella Silicon Valley e ormai diventato affare a nove zeri di venture capital, per prima cosa sappia che lo invidio perché ha ancora tempo per scappare e vivere in pace la sua vita. All’app si accede solo se ti arriva un invito. E se hai un iPhone. A Milano chi non l'ha ancora ricevuto sta scalpitando. Se non lo fa, finge, perché anche gli amici più insospettabili, per il momento un consigliere comunale e un esperto di arte, mi hanno scritto per sapere se potessi agevolarli all’entrata. Su Twitter c'è persino un hashtag dedicato, e lì ho scoperto che se proprio avete urgenza, gli accessi si trovano su Ebay o su Reddit a 150 euro l'uno.  

Origliare prima di tutto

L'idea che lo distingue dagli altri social è che si usa solo la voce e si parla in diretta: quello che sai, e come lo dici, sei. E nulla rimane registrato. Qui non si postano foto, video o frasi a effetto. Se hai passato il lockdown sul tapis roulant o a distruggerti di allenamento per avere gli obliqui, su Clubhouse non se ne accorge nessuno. Se sbagli i congiuntivi o hai le “e” troppo aperte però sì.

I temi di conversazione sono i più disparati, in ogni “room” si tratta un argomento, qualche volta si parte con un discorso e si arriva a un altro. Ci sono i moderatori “su”, in un palco virtuale, e gli ascoltatori “giù”, in platea. Chi dalla platea vuole prendere la parola deve alzare una mano, virtuale, e il moderatore può farlo parlare. Ma è divertente anche solo stare lì ad ascoltare senza dover per forza dire qualcosa.

Un po’ come origliare la conversazione di qualcuno che non si conosce. Ho lavorato per anni in un grande open space diviso solo da pannelli verdi. Per mesi ho ascoltato le telefonate di una collega di un altro ufficio, dall’altra parte del divisorio, senza avere idea di che faccia avesse. E quando le conversazioni col suo avvocato sono diventate più frequenti di quelle col marito, ho capito, prima di lei, come sarebbe andata a finire la sua vita.

Ecco, più o meno la situazione su Clubhouse è la stessa. Solo che qui quelli che parlano sul palco sanno che esisti e che li stai ascoltando. «Ma non sanno esattamente che ruolo hai. Può essere un aspetto interessante, quasi eccitante, ma se sei un professionista è anche un grosso rischio ignorare chi recepisce le tue parole», mi mette in guardia l’amico Eugenio Scotto, guru dei social media e manager di molti influencer da milioni di follower. Che per il momento rimangono volontariamente fuori, soprattutto i più giovani. «Il qui e ora non per tutti funziona, il mezzo va capito e sperimentato», dice diplomatico. E poi devono ripartire da zero coi follower, mentre sugli altri social, Instagram e Tik Tok, ne hanno milioni. Chi glielo fa fare, penso io.

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Il mio invito

La policy di Clubhouse dice che i nomi non si fanno e se citi qualcuno a sproposito puoi essere bannato. Il giorno del debutto in Italia sono avvenute un paio di gaffe di cui si è parlato per una settimana. Pare che un social media manager si sia lasciato sfuggire qualche commento poco bonario su una famosa imprenditrice digitale, ignorando che ad ascoltarlo ci fosse un fedele collaboratore di lei. E sono volate minacce di querela davanti alla platea.

Per chi ha passato la pandemia a casa da solo, tutte queste conversazioni accessibili sembrano una rivoluzione. E anche una minaccia di querela in tempo reale, seduto sul divano in tuta, sembra un sogno. Uno dei miei inviti a disposizione – ogni iscritto al social ne riceve due – l’ho destinato all’amica Paola Galloni, intenerita dal fatto che rispetta in modo ferreo tutti i Dpcm, ha il marito ipocondriaco e, come se non bastasse, è la nuora del pm di Mani Pulite Gherardo Colombo: è impensabile bere una birra con lei fino a che non ci abbiano vaccinato tutti. L’invito le spetta.

Nottambuli

Negli Stati Uniti i primi a conversare sull’app sono stati i rapper, da Meek Mill a Ice Cube, artisti seguiti da oltre 20 milioni di follower su Instagram. Per policy non è ammesso un linguaggio volgare e intimidatorio nei confronti delle donne, e, ça va sans dire, di droghe non si parla: alcuni sono stati bannati nei primi dieci minuti. Complice la vita monastica di questo periodo, i collegamenti più interessanti si fanno dalle 22 in poi, tanto siamo tutti a casa.

La rapper Madame, 19 anni, prossima al palco del festival di Sanremo l’ho incontrata nella stanza in cui si parlava di ansia e attacchi di panico ed è rimasta dentro fino a tardi. Me ne sono andata prima io, verso le 2, quando uno dei presenti ha citato la bellezza del Cantico dei Cantici e lei ha iniziato a parlare di Dante, di cui è fan.

Sono entrata poi in una room coi cantanti Calcutta e Cinzano Ferguson, nome di fantasia scelto da Morgan, ma poi li ho lasciati lì e sono passata a quella sui delitti italiani irrisolti da cui non riuscivo a staccarmi. Neppure la convocazione di Draghi da Mattarella è riuscita a farmi tornare alla realtà, la fomo (fear of missing out, paura di perdersi qualcosa) qui è all’ennesima potenza. Soprattutto durante gli aneddoti del discografico Charles Rapino, di casa a Londra e onnipresente sul social, a parte quando ha lezione di yoga.

Durante la sua conversazione con la figlia di Bobby Solo, Veronica, ho ignorato persino la notizia del libro di Rocco Casalino, arrivatami in anteprima su Whatsapp da un amico insider del governo: Rapino le stava raccontando che la canzone Michelle, scritta da Paul Mc Cartney e John Lennon, in realtà era destinata a Bobby Solo, perché il loro manager, Dick James, si era innamorato del suo stile. Poi però non se ne fece più niente. Veronica di contro ha risposto, facendoci sapere che al festival di Sanremo del 1984 Freddie Mercury aveva preso una sbandata per suo padre e lo chiamava al telefono continuamente, anche nei mesi successivi.

Una vita sul social

All’alba (7.30) non sono mai riuscita a svegliarmi per gli interventi di Rosario Fiorello ma chi ha assistito dice che sia esilarante. Da moderatore, ieri, voleva dare la parola a tutte le settecento persone della sua platea ma non sapeva come farlo, per fortuna. Però dalle 9 alle 10 ho seguito Michelle Hunziker con sua figlia Aurora Ramazzotti.

La conversazione si è accesa quando si è collegata da Los Angeles Gaia, moglie di Will Burke, regista di Jimmy Kimmel Live! e Michelle ha confidato alla figlia di averla concepita in California. Il palinsesto è casuale, dal quartier generale dell’app sostengono che gli artisti italiani non sono pagati per partecipare. Intanto, all’ora di pranzo, nella stessa stanza, ho incontrato Andrea Delogu, Ema Stokholma e Luca Neri; all’ora di cena ho ascoltato Saturnino che raccontava lo scherzo fatto a Dalia Gaberscik, lì presente. L’altro giorno, per aspettare il collegamento di Elon Musk da Los Angeles (qui le 7 del mattino, lì le 11 di sera) sono incappata in una room di speed dating in cui c’erano quasi duemila utenti americani: il moderatore dava a tutti un minuto di tempo per presentarsi e poi, chi voleva, proseguiva la conversazione in privato, altrove.

Ieri invece sono approdata in una stanza di giovani cinesi che parlavano di futuro dell’umanità e, per ovvie ragioni, ho cercato di non perdermi neppure una parola. Alla fine ho scoperto che erano tutti under 30 fondatori di qualcosa, parlavano di filosofia, ecosistema e il loro interesse principale non è fare soldi ma puntare sulle piattaforme di e-learning. Pare siano il futuro. Mindset, mentalità cinese, era la parola più usata nei loro dialoghi dopo serendipity e thank you, che gli italiani invece non usano mai.

Quanti siamo

Dimenticato il burraco online, le serie tv e la crisi di governo, ormai mi collego appena arriva una notifica sul cellulare. Mi dà sollievo sapere che nella mia stessa situazione ci sono altri due milioni di utenti. Ad aprile scorso ce n’erano 1.500 e l’app era stata valutata cento milioni di dollari. Oggi, che gli utenti aumentano esponenzialmente, siamo già al miliardo di dollari. Merito di Marc Andreessen, tra i finanziatori più potenti della Silicon Valley, per capirsi l’uomo che ha consigliato Mark Zuckerberg di non vendere Facebook a Yahoo per un miliardo di dollari (oggi Facebook ne vale 500 e Yahoo è morto).

Gli ideatori del social sono due ingegneri under 35, Paul Davison, di Boston, ex ingegnere di Pinterest ed esperto di criptovalute, e Rohan Seth, nato in India e cresciuto a San Francisco, esperto di Google Maps. Quest’ultimo prima di sfondare con Clubhouse aveva creato un sito di raccolta fondi per curare la sua bambina, Lydia di 1 anno, che ha una malattia genetica che le rende impossibile parlare e camminare. Di certo il successo della società li aiuterà. Intanto io dopo una settimana ho imparato che Clubhouse provoca dipendenza, ma non ti avverte nessuno quando ti iscrivi. E invece, insieme al benvenuto, ti dovrebbero regalare un  paio di pillole di melatonina, visto che il primo a risentirne è il metabolismo.

Mentre sto per chiudere questo pezzo, l’amica avvocata Alberta Antonucci, esperta di diritto del web, mi allerta sulla policy: «Non puoi registrare le conversazioni e neppure riportare quel che succede nel social». Clubhouse è una specie di Fight Club. La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club. Ma sento di voler correre questo rischio: essere bannata è l’unico modo che ho per uscire da lì.

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